Annie Ernaux: narrare l'aborto
«L’evento» è una narrazione sincera, senza pentimenti, senza inutili romanticismi, di un’autrice che sceglie le parole da usare con una precisione chirurgica.
Un tavolino di formica contro un muro, con una bacinella smaltata in cui galleggia una sonda rossa. Leggermente sulla destra, una spazzola.
Se Annie Ernaux, scrittrice francese contemporanea, dovesse rappresentare con delle immagini la storia del suo aborto clandestino a ventitré anni, userebbe questi oggetti.
Sono gli oggetti presenti nella casa della donna – la «fabbricante d’angeli», come la chiama lei – che l’ha aiutata a interrompere la sua gravidanza.
L’Evento, libro in cui ripercorre il periodo in cui scopre di essere incinta e sceglie di abortire, è un racconto potentissimo, con uno stile essenziale, quasi scarno, che non si serve di ornamenti barocchi per rendere più credibile la narrazione.
Annie Ernaux non si risparmia mai, e in questo caso si serve dei diari scritti nel 1963 – anno in cui è avvenuto «l’evento» - per eliminare l’unico senso di colpa mai provato per il suo aborto: che le sia successo e «non ne abbia fatto nulla», perché il fatto che la clandestinità appartenga al passato «non è un motivo valido per lasciarla sepolta».
L’Evento non è solo un racconto autobiografico, è una cronaca vivissima, minuziosa, una sequenza di eventi vissuti e ripercorsi ricordando ogni dettaglio, ogni persona incontrata, persino ogni canzone ascoltata.
Annie Ernaux non crea delle immagini, ma si cala nelle immagini, il suo obiettivo non è soltanto raccontare gli eventi, ma raggiungerli una seconda volta.
«La prospettiva di abortire non mi spaventava. Mi sembrava una cosa, se non facile, perlomeno fattibile», scrive.
Abortire è una prospettiva che Ernaux accoglie sin dal principio. La vergogna è un’emozione che non prova, o meglio, la vergogna che prova non è sua, è una vergogna imposta dal mondo esterno.
Ai medici, negli anni Sessanta, quando il diritto all’aborto in Francia non esisteva, le ragazze come lei «rovinavano la giornata: li costringevano a ricordarsi l’esistenza di una legge che avrebbe potuto spedirli in prigione».
Ma nulla giustifica l’insensibilità del medico che, al suo arrivo in ospedale per un’emorragia, le dice: «Non sono mica l’idraulico!».
Una frase che non ha mai smesso di riemergere, bruciando, nell’interiorità dell’autrice.
L’evento è una narrazione sincera, senza pentimento, senza inutili romanticismi, di una scrittrice che sceglie le parole da usare con una precisione chirurgica.
«Smarrimento» è quella che ad un certo punto usa per descrivere le giornate vissute: è lo smarrimento di una ragazza di ventitré anni quasi del tutto sola nella sua disperazione, che ad un certo punto cammina con una piccola sonda nel corpo e scrive un diario.
L’agitazione, che emerge subito dopo, non è legata all’idea di commettere uno sbaglio, ma all’idea di non riuscire a esercitare quello che dovrebbe essere un suo diritto, anche se non ancora riconosciuto.
La «stagnante infelicità» che prova in altri momenti nasce dalle domande inappropriate, dalle osservazioni indesiderate e dai giudizi crudeli degli altri. Come quello del farmacista che la fulmina con lo sguardo in mancanza della ricetta per ritirare un antidolorifico uterino.
L’unica persona che le sta accanto e le offre tutto il supporto possibile, anche nel preciso momento in cui il suo aborto si concretizza nello studentato femminile, racconta, è O., una compagna di università borghese e molto credente.
Il suo partner, invece, reagisce alla gravidanza con assoluta indifferenza e, ancora una volta, è Ernaux che lo scrive nel suo diario senza mezzi termini: «Mi lascia a sbrigarmela da sola».
Questa è una storia che sembra uguale a tante altre. Ernaux lo sa, è consapevole di essere la voce di tante altre voci, che la sua esperienza non è singola: ci sono altre donne, altre ragazze, che hanno vissuto lo stesso abbandono, lo stesso smarrimento, le stesse paure.
È anche per questo che sceglie di ripercorrere l’interruzione della sua gravidanza senza tralasciare nulla: «Se non andassi fino in fondo nel riferire questa esperienza, contribuirei a oscurare la realtà delle donne».
Una realtà, quella delle donne che hanno fatto ricorso ad aborti clandestini, che non deve essere dimenticata.
Così come non deve essere dimenticata la consapevolezza - diffusa - dei medici nella Francia degli anni Sessanta: «Se le avessero ostacolate, quelle stesse donne l’avrebbero fatto comunque, in un modo o nell’altro».
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