Spivak e il subalterno che (non) parla
Il personale in Spivak diventa politico, perché il suo personale è il mezzo che usa per analizzare la realtà in cui vive.
Negli scritti della filosofa Gayatri Chakravorty Spivak, l’idea del personale come atto politico emerge nella costante tensione verso un margine che è impossibilitato a diventare «centro». Tale impossibilità è data dalle regole di un mondo occidentale che si è imposto come soggetto che costruisce tutti gli altri soggetti secondo le sue regole.
Il soggetto «all’occidentale» si muove e si afferma non soltanto tra le identità di chi abita nei suoi confini, ma anche tra le identità degli «Altri», ovvero altri soggetti, costruiti secondo le regole e le culture occidentali, da controllare, su cui affermare un potere, e che esistono soltanto se possono riflettersi nello specchio della colonizzazione.
Per Spivak questi «Altri» non sono veramente umani, ci sono delle regole ben precise che permettono la loro affermazione e queste regole sono come degli indumenti troppo stretti cuciti addosso a persone che non vogliono indossarli per davvero.
Nella sartoria immaginaria che si occupa di cucire questi indumenti non si presta molta attenzione alla volontà degli «Altri», perché c’è un obiettivo da seguire, ovvero cucire quegli indumenti in modo che gli «Altri» li indossino. E basta.
L’Occidente ha costruito così l’immagine dell’Altro e dell’Altra del terzo mondo: identità non abbastanza civilizzate, poste in una condizione di subalternità rispetto alla sua grandezza.
In un'intervista del 1984, Spivak racconta alla filosofa Elisabeth Grosso che nel sistema educativo britannico a «persone come lei» veniva insegnato che se avessero potuto iniziare ad avvicinarsi a quel concetto di essere umano universale, allora anche loro sarebbero state considerate umane.
Il personale in Spivak diventa politico, perché il suo personale è il mezzo che usa per analizzare la realtà in cui vive. Spivak scrive a partire dalle sue esperienze, dalla sua infanzia: il margine lo conosce.
Nei suoi scritti, come spiega la giornalista e scrittrice Ambra Pirri nel suo articolo Con l’occhio del ventriloquo, Spivak analizza «gli effetti culturali e sociali che la colonizzazione ha avuto, e continua ad avere» con un focus sul soggetto femminile, che risulta doppiamente marginalizzato, in quanto da un lato è schiacciato culturalmente dall’ economia capitalista e, dall’altro, dall’oppressione sessuale patriarcale.
La Rani di Sirmur e Bhubaneswari Bhaduri
In Critica della ragione postcoloniale, opera del 2004, Spivak non propone soltanto una visione filosofica del soggetto subalterno, ma racconta come questa subalternità si attui attraverso le storie di due donne: la Rani di Sirmur e l'attivista Bhubaneswari Bhaduri.
Oggi conosciamo la storia della Rani, moglie di un Rajah della regione di Sirmur, vicino alle colline dell'Himalaya, spodestato dagli inglesi nel XIX secolo, soltanto perché emerge negli archivi a causa di meri interessi commerciali: «La Rani divenne uno strumento. Ed è così che furono tracciate le linee della restaurazione della storia di (una) donna secondo le definizioni occidentali di storicità», scrive Spivak.
Della Rani di Sirmur non si sa molto, in realtà non conosciamo bene neanche il suo vero nome, dal momento che negli archivi a volte ci si riferisce a lei come «Rani» e altre volte come «Gulari», ma sappiamo che ad un certo punto il marito viene spodestato dal trono per volontà degli inglesi, a causa della sua dissolutezza e del suo carattere «barbaro» (anche se in alcune fonti si ipotizza che avesse la sifilide)1. Da quel momento la Rani diviene la tutrice del nuovo sovrano in carica, ovvero suo figlio.
Un giorno il Capitano Birch, un funzionario britannico, diffonde a Delhi la notizia che la Rani vuole farsi ardere sulla pira funebre del marito, e lui, che si dipinge come un funzionario di tutto rispetto, vuole impedirle di compiere questo gesto.
Si tratta del rito del «sati», o «suttee», e prevede che una donna vedova salga sulla pira funebre del marito defunto per farsi bruciare viva e morire con lui. Un atto di devozione estrema nei confronti del marito.
Ma il marito della Rani è davvero morto? E lei vuole compiere davvero questo gesto? Non lo sappiamo, non sappiamo nulla.
Nessun archivio riporta la fine della vicenda. Per alcune fonti, però, è possibile che la Rani alla fine sia morta per cause naturali.
Non ci sono le giuste informazioni storiche per interpretare adeguatamente e con precisione l’evento di cui Rani è protagonista, ma questo non importa. Spivak evidenzia come in questa storia il maschio nativo abbia bisogno del sati per supportare la narrazione della buona moglie che segue il marito persino nella morte; e come il maschio britannico colonizzatore, invece, abbia bisogno del sati come motivo per salvare le donne «subalterne» dalla religione e la cultura che le opprimono.
Non importa né al «maschio nativo» né al «britannico colonizzatore» raccontare la vera storia della Rani, perché vogliono soltanto costruire una storia che rappresenti l’oppressione patriarcale da un lato e quella colonizzatrice dall’altro. Così, però, la Rani sparisce. E spariscono le sue volontà.
Bhubaneswari Bhaduri è un’adolescente nell’India degli anni Venti del Novecento e fa parte di uno dei gruppi attivi nella lotta armata per l’indipendenza indiana. A sedici o diciassette anni si suicida nell’appartamento di suo padre a Calcutta. Siamo nel 1926, per l’esattezza, e la ragazza si suicida perché non riesce a portare a termine l’assassinio di un uomo politico, che le era stato ordinato dai capi del movimento.
Bhubaneswari Bhaduri però vuole far sapere al mondo di non essersi suicidata perché rimasta incinta in una relazione sessuale avvenuta prima del matrimonio, considerato un atto illecito, quindi si suicida in un momento in cui ha le mestruazioni.
Spivak scrive che lei intende «essere recuperata» perché «scrive con il suo corpo»: «È come se avesse cercato di ‘parlare’ oltre la morte, rendendo il proprio corpo grafematico».
È una donna subalterna che parla.
Il subalterno per Spivak e Gramsci
La categoria del «subalterno» è stata introdotta da Antonio Gramsci nei suoi Quaderni del carcere e descrive gruppi subordinati, esclusi e marginalizzati dalla struttura di potere dominante, tra cui il proletariato e i contadini. È qui che Spivak la legge per la prima volta.
Il termine «subalterni» compare già nel Quaderno 1, inizialmente nell’ambito di testi di argomento militare: il riferimento riguarda in particolare gli «ufficiali subalterni nell'esercito», a cui Gramsci paragona gli intellettuali-massa.
Nel Quaderno 25, monotematico e composto soltanto da otto note, come spiega il filosofo Guido Liguori nel saggio Tre accezioni di «subalterno» in Gramsci, che si chiama Ai margini della storia (Storia dei gruppi sociali subalterni), il concetto di «subalterno» diviene più chiaro.
Nel suo saggio, Liguori evidenzia che Gramsci apre questo quaderno con due note, poste in una prima stesura nel Quaderno 3, sui movimenti popolari marginali nell'Italia dell'Ottocento, prendendo come esempio il caso di David Lazzaretti, un leader religioso popolare a capo di una ribellione contro lo Stato e la Chiesa.
Nella prima nota Gramsci spiega che la «caratteristica principale» del fenomeno Lazzaretti, ovvero una «tendenza sovversiva-popolare-elementare», è il sincretismo tra il repubblicanesimo di Lazzaretti e l’«elemento religioso e profetico» (Q 3, 12, 298). Poi il concetto viene ripreso in una seconda stesura in cui è proprio il miscuglio di repubblicanesimo «bizzarramente mescolato all'elemento religioso e profetico» a dimostrare «la [...] popolarità e spontaneità del fenomeno» (Q 25, 1, 2280).
Gramsci scrive che «le masse rurali, in assenza di partiti regolari, si cercavano dirigenti locali che emergevano dalla massa stessa, mescolando la religione e il fanatismo all'insieme di rivendicazioni che in forma elementare fermentavano nelle campagne». In questo modo collega l'emergere di tali figure «dalla massa» all'incapacità delle élite politiche, in particolare della sinistra, di organizzare e guidare le classi subalterne.
Gramsci si dimostra però scettico all’idea che le classi subalterne possano rappresentarsi da sé. In una nota del Quaderno 3, infatti, afferma che «l’elemento della spontaneità è […] caratteristico della “storia delle classi subalterne”»; ma senza una «direzione consapevole» le classi subalterne non usciranno dalla loro subalternità.
Il concetto di «subalterno» in Spivak è molto più legato al linguaggio, alla rappresentazione dei corpi e delle identità dei gruppi sociali marginalizzati da una prospettiva poscoloniale.
Gli «Altri» di Spivak, le identità subalterne, non possono parlare. E si tratta di un’impossibilità che si attua sia sul piano sociale che sul piano della rappresentazione metafisica: sono «Altri» oppressi da politiche coloniali e privati sia del loro linguaggio che della possibilità di rappresentare il sé seguendo le «proprie» regole, perché c’è un mondo che costruisce le identità delle categorie subalterne al loro posto.
In questo contesto, la donna «subalterna» è, per Spivak, doppiamente marginalizzata, sia dal capitalismo che dalle strutture sociali patriarcali.
I subalterni gramsciani sono gruppi sociali oppressi che hanno bisogno di una coscienza di classe per uscire dai margini; i subalterni di Spivak questa coscienza non possono svilupparla, a meno che non avvenga un cambiamento nella struttura del sistema capitalista e patriarcale che li opprime, perché il sistema così com’è li esclude per definizione.
La differenza più grande che riscontro tra il subalterno in Spivak e il subalterno in Gramsci risiede nell’affermazione dell’identità subalterna in un sistema d’oppressione: per Gramsci l’identità subalterna ha bisogno di una guida «esterna»; per Spivak, invece, l’identità subalterna non ha bisogno di guide, ne ha già troppe, piuttosto ha bisogno di poter prendere parola, senza che qualcun altro lo faccia al suo posto.
Lasciar parlare, non parlare al posto di.
Pamela De Lucia, Lettura !interessata” di Can The Subaltern Speak? di Gayatri Chakravorty Spivak, in «DEP», n. 21, 2013, p. 108.