In Adolescence manca la rabbia di chi resta
La vita degli affetti di Kate è ignorata quasi del tutto. Jade, in particolare, meriterebbe più attenzione
Manosfera, mettendo da parte il conclave (che comunque qualcosina a che vedere con la manosfera in senso lato ce l’ha), è la parola del momento. Il fatto che questo tema sia stato oscurato dall’elezione di un monarca assoluto di un’istituzione rigida e conservatrice sui diritti delle donne è un colmo.
L’uscita di Adolescence - la miniserie britannica che esplora la radicalizzazione maschile e la cultura incel, attraverso la narrazione di un femminicidio compiuto da un tredicenne - non ha una funzione di denuncia sociale del problema, perché si tratta di un prodotto targetizzato sui numerosi spettatori interessati alla questione della radicalizzazione dei maschi online, intercettando il panico morale dei genitori.
Come scritto da Doreen St. Felix sul New Yorker, i creatori di Adolescence modellano il ragazzo contemporaneo come una creatura fragile, abbandonata dalla società:
“Nessuno gli ha insegnato come gestire la sua incipiente sessualità; nessuno gli ha insegnato come affrontare il rifiuto. È interessante notare che il sentimento di abbandono rispecchia la forza animatrice delle parti più brutte della manosfera americana: la convinzione che gli uomini siano stati lasciati indietro”.
Eppure non dovremmo parlare di manosfera come se fosse un mostro informe proveniente dagli angoli più oscuri di internet e dei social network. Sarebbe piuttosto ingenuo in un contesto in cui il vicepresidente del Paese più potente al mondo, JD Vance, durante la campagna elettorale americana ha attaccato la candidata alla presidenza Kamala Harris e le sue sostenitrici definendole “childless cat ladies” (“donne senza figli e con gatti”), perché avere dei gatti e non dei figli, nella sua visione, rende inutili le donne, buone solo come incubatrici.
Lo stesso mondo in cui Mark Zuckerberg dichiara nel podcast di Joe Rogan che le grandi imprese hanno bisogno di più energia mascolina e in cui Elon Musk twitta ogni giorno come i ragazzini disperati e mente sulle proprie skills nei videogiochi.
Il CEO di Meta, che ha costruito un impero creando un sito in cui classificava le ragazze presenti nel suo college in base alla loro bellezza estetica, ritiene che il mondo corporate debba tornare alla vecchia sana mascolinità ultimamente soppressa dalla cultura woke.
In un articolo recente su PinguLeaks, Marco ha intervistato la ricercatrice e psicoterapeuta Lilibeth Fontanesi per approfondire il tema delle comunità Incel, da distinguere rispetto ai “redpillati” e i “blackpillati”, e per parlare di come grazie alla polarizzazione social questa subcultura e il linguaggio utilizzato da queste comunità ottengano più risonanza: è emerso che il problema alla base, come mostrano le ricerche, è l’idea diffusa che il femminismo sia una piaga, che le donne siano privilegiate e che escludano potenziali partner solo perché ritenuti “fisicamente sgradevoli”.
Si tratta di ideologie che vengono condivise anche senza conoscerne il gergo specifico da persone che si sentono fallite, emarginate e incapaci di regolare le proprie emozioni, di gestire la sofferenza e il rifiuto.
Senza fare molti giri di parole, riteniamo che nel dibattito pubblico ci si occupi della questione della solitudine delle nuove generazioni come se fosse un problema che riguarda solo i ragazzi, ma la solitudine contemporanea riguarda anche le ragazze: anche molte ragazze fanno fatica ad avere relazioni o vengono rifiutate perché non ritenute attraenti, eppure non sono mai nate comunità di donne che ripudiano gli uomini, incolpando loro della propria frustrazione sessuale.
Non è solo il web a dire ai maschi che i loro diritti sono centrali e che i fallimenti e i rifiuti sono per loro inconcepibili, è ancora buona parte della società a farlo, e se ciò non avviene, la tendenza è quella di cercare di prendersi ciò che pensano sia di loro diritto con la forza, senza cercare di lavorare su sé stessi, perché è sempre più facile incolpare fattori esterni.
Come scrive la giornalista Viola Stefanello su Siamo Mine:
“Non aiuta il fatto che la misoginia abbia dalla propria parte migliaia di anni di stereotipi, mistificazioni e bugie radicatissime anche nella cultura contemporanea. Vive e vegete al bancone del bar dell’angolo come nei forum, nelle sezioni commenti come ai pranzi di famiglia, nei consigli d’amministrazione come nei dipartimenti di risorse umane, nelle relazioni di coppia eterosessuali, nei cervelli delle donne stesse. La manosfera starà pur distruggendo rapporti interpersonali, ispirando sparatorie di massa e rovinando la salute mentale anche di molte persone che ne fanno parte, ma non si è inventata nulla”.
Il motivo per cui la truffa della Manosfera funziona risiede nel mix di problemi autentici, ideologie millenarie nel marketing dei vari guru, che nella quasi totalità dei casi non promuovono stili di vita sani e un incoraggiamento a prendersi carico delle proprie responsabilità, bensì sfruttano le insicurezze maschili promettendo soluzioni semplicistiche con cui monetizzare.
In questo contesto, però, non c’è posto per chi non si riconosce nella narrazione predominante. C’è una domanda, infatti che in Adolescence non trova risposta: cosa succede a chi resta?
Alla fine del primo episodio, Katie è morta. Jamie, il suo femminicida, è stato arrestato. Intorno a loro si muove una rete di amici, insegnanti, genitori, psicologi e poliziotti. Tutti cercano di rispondere a un’unica, insistente domanda: “Perché l’ha fatto?”
E non è sbagliato.
Ma nessuno, o quasi nessuno, sembra interrogarsi su un’altra parte importante della storia: cosa accade alle persone che volevano bene a Katie? Come si sopravvive a un lutto tanto violento e improvviso? Come si convive con una perdita che non è solo intima, ma politica, sociale, collettiva?
Il personaggio che più si avvicina a questa dimensione è Jade, la migliore amica della vittima. Pur protagonista di uno dei momenti più emotivamente intensi della serie — una scena in cui, spinta dalla frustrazione, aggredisce uno degli amici di Jamie — la sua dimensione interiore non viene rappresentata nella storia.
Jade è arrabbiata, certo, ma nessuno ci parla di quella rabbia. È trattata come uno sfogo secondario, un eccesso collaterale, non come una risposta umana, legittima, forse persino necessaria.
Eppure, quella di Jade è la rabbia di chi resta. Una rabbia scomoda, che non consola.
Ci sembra che non sia approfondita una questione importante: il patriarcato non è solo un sistema che promuove la cultura del predominio degli uomini sulle donne, ma anche un contesto in cui le donne non possono esprimere la propria collera in libertà, senza trasformarla in un caso clinico.
La rabbia femminile, e in particolare quella delle sopravvissute, è da sempre un tabù culturale. O viene patologizzata — diventando isteria — o viene romanticizzata — diventando eroismo. Raramente è semplicemente ciò che è: una reazione proporzionata a un’ingiustizia irreparabile.
Adolescence compie un’operazione complessa: mostra il processo di radicalizzazione maschile con una freddezza che non giustifica, ma analizza il problema — in un modo non particolarmente originale, sinceramente, né funzionale alla causa, dal momento che è un prodotto pensato per attirare un certo target: gli appassionati di serie tv che cercano risposte esistenziali nelle serie tv. Tuttavia, nel fare questo, rischia di reiterare una delle storture che denuncia: il centro della narrazione è, ancora una volta, l’uomo. È lui a essere interrogato, compreso, umanizzato.
Di Katie sappiamo poco. Della sua famiglia, quasi nulla. Della sua migliore amica, solo frammenti. Le persone che amavano Katie sono trattate come comparse nel dramma del femminicidia. Eppure, loro sono la prosecuzione viva di quella storia. Non solo una cornice.
La vita degli affetti di Kate è ignorata quasi del tutto. Jade, in particolare, rappresenta una figura che meriterebbe più attenzione: è una sopravvissuta non celebrata.
Il problema è narrativo, ma anche sociale e culturale. Nella vita reale, come nella finzione, siamo spesso più portati a chiedere “perché ha ucciso?” piuttosto che “come possiamo sostenere chi resta?”.
Spesso pensiamo che solo una risposta alla prima domanda possa produrre cambiamenti sociali, ma anche rispondere alla seconda può generare delle trasformazioni importanti, attraverso l'elaborazione di nuovi strumenti per affrontare i femmincidi – e parlare dei femminicidi.
In un contesto storico in cui la cultura manosferica è sempre più presente nella vita di adolescenti (e adulti, spesso inconsapevoli, spesso che scelgono di essere inconsapevoli), occorre spostare lo sguardo. Non solo su chi compie violenza, ma su chi la subisce. E su chi sopravvive a quella violenza.
Come spiega la filosofa femminista Sara Ahmed in The Cultural Politics of Emotion, le emozioni non appartengono solo all’individuo, ma circolano tra i corpi, diventano collettive, modellano il mondo.
La rabbia di chi resta, dunque, non è solo una reazione personale. È ciò che ci porta a fare i conti con la realtà: Katie c’era, Katie manca.
Mentre la manosfera amplifica voci che promettono soluzioni semplici e distruttive a problemi complessi, l’operazione da compiere è duplice: scardinare la cultura che amplifica queste narrazioni e, allo stesso tempo, riconoscere e ascoltare chi ne subisce le conseguenze più dirette.
Nel rendere visibile la rabbia di chi resta, non si tratta di chiedere ai familiari e agli amici della vittima di insegnarci qualcosa. Ma di riconoscere che loro sono parte della storia. Non i postumi. Non gli effetti collaterali. E meritano una rappresentazione dignitosa.