Cara Elena, ti chiamo per nome
L’amore che provo per i personaggi che hai sbozzato l’ho sempre immaginato come una rivoluzione silente.
Buongiorno,
sta per iniziare qui su Femminismi una rubrica in collaborazione con Francesca Perricci, autrice di quest’articolo e amministratrice della pagina Instagram L’amica geniale Italia.
Nella nostra rubrica analizzeremo la quarta stagione de L’amica geniale, che andrà in onda su Rai 1 a partire da lunedì, approfondendo temi e curiosità da una prospettiva femminista.
Domani uscirà qui un pezzo sugli spazi delle donne in Storia della bambina perduta, l’ultimo libro della tetralogia su cui si baserà la quarta stagione. Si tratta di un'analisi dei personaggi di Lila e Lenù con un focus sulla relazione con gli spazi che frequentano nel romanzo.
Il pezzo di oggi, invece, è scritto interamente da Francesca ed è una lettera a Elena Ferrante.
Ho chiesto a Francesca di scrivere insieme a me gli articoli per questa nuova rubrica su L’amica geniale perché, pur non conoscendola, ho letto tutto ciò che ha scritto su Elena Ferrante online e mi è arrivato il suo profondo amore per l’autrice.
Francesca è una persona che sa leggere con spirito critico e coinvolgimento al contempo. Le sue analisi sono puntuali. Sono convinta che nei suoi scritti, così come nella sua tesi di laurea L’autrice geniale: Elena Ferrante tra identità e smarginatura, abbia colto degli aspetti di Elena Ferrante per niente scontati. Come riesce a fare soltanto chi si innamora di un’autrice a tal punto da riuscire a guardarla da più di una prospettiva e a carpire le sue molteplici identità.
Attraverso il sé di Elena Ferrante, Francesca ha colto anche un po’ del suo sé.
In questo pezzo traspare perfettamente.
Buona lettura,
ci risentiamo domani.
Anna
Cara Elena, ti chiamo per nome
Folgorazione.
Sono convinta che se Elena leggesse questa apertura storcerebbe il naso.
Non ha mai creduto alle folgorazioni, ancor meno quando la parola si accompagna a un film, a una canzone, a un romanzo che ci ha cambiato la vita. No, mi direbbe, trovane un’altra, questa è troppo abusata.
È audace da parte mia anche chiamarla per nome come se la conoscessi personalmente; come se insieme, da quando ho iniziato a leggerla, avessimo trascorso del tempo a parlare del più e del meno, dei disastri di tutti i giorni ai quali si cerca di imporre un ordine - senza riuscirci - con la bella forma della scrittura.
Eppure ho bisogno di questa confidenza, in qualche modo me la auspico. Mi serve per trovare il filo giusto per misurare il sovvertimento che i suoi romanzi hanno causato nella mia vita. Hai ragione Elena, ho usato di nuovo un termine che ti risulta antipatico in questo contesto. Eppure vedi se, come tu sostieni, l’arte e la letteratura devono aiutarci a esercitare un controllo più cosciente su ciò che ci circonda, compresi anche gli affetti, io credo che non ci possano essere mani ferme senza un po’ di scossoni necessari al riassestamento.
L’amore che provo per i personaggi che hai sbozzato da chissà quale materia grezza della tua infanzia, o della tua vita di adesso, l’ho sempre immaginato come una rivoluzione silente che al momento giusto ha sciolto il mio vecchio modo di pensare e vedere per impormene un altro, quello che abita la mia età adulta. Per citare Ortese, che sicuramente stimi e leggi, dico che mi hai dato un nuovo paio di occhiali per vedere non solo gli altri, ma anche me stessa. E la sostituzione del vecchio ordine al quale si aderiva non si chiama forse sovvertimento? E Kafka stesso non diceva che i libri migliori, ammessa la differente scala di valori alla quale ognuno di noi si rifà, sono come un colpo d’ascia che spacca il lago ghiacciato che ci portiamo dentro? Concedimi quindi l’uso di questi termini, certa di non scivolare nella cieca idolatria, ma nella gratitudine sconfinata che provo nei tuoi confronti per avermi regalato un’amica - un’altra necessaria - dalla quale ritornare, specialmente nei giorni senza luce.
Lila è stata una folgorazione, in qualche modo continua a esserlo, come un satellite che mi invia di tanto in tanto segnali luminosi da una posizione imprecisata. Devi sapere che nutro affetto sincero per quei personaggi interrotti la cui traiettoria di vita, per cocciutaggine o fatalità, resta inevitabilmente incompiuta. Mi piace vedere l’effetto che provoca il meccanismo che s’inceppa, e lo sforzo che ne viene fuori per tenere insieme i cocci di qualcosa che si è rotto e non può più tornare integro. Lila non ha mai nascosto i filamenti provocati dal suo disordine, sebbene la sua ansia permanente di intelligenza fosse un tentativo di attribuirsi una funzione, e quindi senso, e per questo l’ho amata in ogni momento, in ogni scelta, in ogni finta gioia e dolore.
Mi ricorda il ferroviere-artista che alberga le pagine di un romanzo che amo tantissimo, un’altra delle mie innumerevoli folgorazioni. Lascia che ti spieghi.
Il ferroviere-artista è raccontato attraverso lo sguardo del primogenito, un bambino astioso diventato adulto che vede il padre come il catalizzatore di ogni bugia e violenza. A suo padre il lavoro delle ferrovie sta stretto. Si sente destinato a grandi cose, certo che l’ambiente nel quale è nato non può comprendere il suo estro e per questo lo ridimensiona, lo scoraggia, a volte sembra solo uno sbuffo della sua testa scontenta e nessuno gli dà veramente peso. La vita, per lui, è bella solo se pittata. Succede, però, che il ferroviere-artista insegue comunque la sua vocazione, arrivando a sostituirsi con prepotenza al racconto del figlio e a mescolare realtà e fantasia secondo le sue esigenze. Alla fine l’impalcatura iniziale cede e accanto alla figura del padre rissoso e irredimibile si fa spazio un’altra ombra, quella dell’artista incompreso e assai scontento.
Certo è che lui vuole durare, vuole espandersi nonostante Napoli, nonostante sua moglie, nonostante la famiglia che gli taglia le gambe con le necessità di ogni giorno, con la povertà. Tutti sono insensibili al suo talento di pittore.
E quando parlo di espansione siamo lontane anni luce dalla quieta pienezza di sé che Lena aveva provato quando i suoi libri erano usciti dai confini italiani per arrivare in Francia o in Germania. No, il pittore non aveva niente di quieto. Piuttosto penso alla genialità maschile come a un ospite scortese che si impone forzatamente su qualcosa fino a cancellarne gli argini e le convenzioni. C’è e basta, in qualche modo bisogna tollerarla come una cattiva abitudine.
Vedi, più entravo in contatto con Lila e più sentivo il piacere sfiancante che devi aver provato mentre pagina dopo pagina, parola dopo parola, si innestava controvoglia nel racconto ostinato di Lenù dandogli non soltanto vigore, ma disordine. Ho sempre trovato senso in uno scarabocchio e in tutto quello che potrebbe diventare sotto gli occhi giusti, invece guardo con sospetto alle opere ben riuscite, quelle che fanno esclamare intensi wow di meraviglia. A differenza del ferroviere-artista infatti, più emergeva il genio di Lila, più avvertivo il suo scontento. Scontento sì, ho detto bene, ma anche profondo altruismo e senso civico. Era capace di darsi fisionomia solo in rapporto agli altri e alla città, mentre molto poco ha conservato per se stessa, se ci pensi. Con la storia delle scarpe non aveva voluto regalare al fratello il sogno della ricchezza? Non aveva poi ceduto la gestione del negozio di Piazza dei Martiri ad Alfonso perché gli aveva riconosciuto l’abilità del dialogo, il saper stare in mezzo alla gente che conta? E poi lei, come una chiaroveggente, non l’aveva ridisegnato e mescolato a sé fino a smarginarlo? Non si era fatta piacere le cose che piacevano a Nino per invogliarlo a scrivere, senza temere gli sputi, lo scherno, le mazzate? Ancora per Lena, una volta tornata a Napoli, non continuava a esercitare il potere di fantasma esigente, come uno spillone nel cuore che lo aiutava a battere più forte? Non era lei che all’occorrenza l’aiutava a fare chiarezza e a vedere cose e persone per quello che realmente erano?
Sai, Elena, negli ultimi anni, proprio come Lila, ho iniziato a covare rancore verso i titoli, le carriere accademiche, i lunghi corridoi dell’università. Tollero ancor meno chi fa del proprio lavoro un tratto caratteristico dell’Io. Tutto questo agitarsi per nascondere le nostre manie di arrivismo, per vincere e prevalere sull’altro, per darsi consistenza solo in relazione a un certo status sociale mi sembrano tutti modi sbagliati di servirsi dello studio e, ancor di più, della conoscenza.
Anche io - come te - credo che i nostri titoli dicano poco e niente sulle persone che siamo, mi fido invece di chi studia e conosce per piacere, per puro interesse verso le cose di ogni giorno. Lì riesco a vedere il seme di chi agisce senza omertà, sempre al servizio dei più deboli come ha fatto Lila, o l’Amica della tua primavera che tanto te la ricorda.
In Lila, che resta sempre nello stesso luogo, ho riconosciuto il vero atto rivoluzionario. La sua anarchia mi è sembrata di gran lunga più affascinante di tutte le altre eroine ribelli che ho incrociato nella vita. Può sembrarti paradossale, ma raccontare dalla prospettiva di chi fugge mi emoziona raramente perché rientra, per vie traverse, nel discorso che ho fatto qui sopra. Quanta pienezza ho sentito mentre la vedevo correre per lo stradone con il ronzio di idee che la seguiva come un’ombra, che vita intensa ha avuto perché ha sempre fatto ciò che voleva, e contrariamente a quanto si pensa, non l’ho mai sentita supplice del suo passato e del suo presente. Studio con sincera ammirazione chi, anche per colpa di un destino beffardo (espressione questa abusata), rimane nello stesso luogo ma è sempre fuori luogo e si sveste e incarna mille ruoli diversi: quello di scarpara, di Jacqueline Kennedy, di operaia, di informatica, di studiosa, di strega elettronica. Le ho cucito addosso quella che Arendt chiamava vita activa e il suo agire l’ho allargato alla volontà di migliorare attivamente quel cantuccio di mondo nel quale si era autoreclusa. Che impresa nobile e strabiliante.
In lei ho rintracciato una lunga catena di affetti alla quale tu hai restituito memoria. Guardo alle esistenze femminili che mi hanno preceduta, questo lungo smaniare di sangue e carne che mi ha permesso di essere qui oggi a scriverti, e tutte quante loro me la richiamano alla mente per motivi differenti.
Donne sedotte e abbandonate, incattivite dallo sfinimento sterile di tutti i giorni, quello che non ha altro sbocco se non sui fornelli o nei giochi con i bambini. Quanta intelligenza ingovernabile è stata inghiottita dai loro nuovi cognomi che chiedeva solo di esistere e di essere riconosciuta.
E poi c’è questa ossessione tutta antimelodrammatica di sparire, di non essere riducibile ad alcunché. Mi ha sempre affascinata.
Al contrario del ferroviere-artista, spesso ho avuto l’impressione che Lila vivesse il suo dono non come una benedizione, ma come una disgrazia. È come se da un certo punto in poi quella stessa genialità che le aveva permesso di manovrare il suo mondo come voleva lei, e insieme di riscattare la sua famiglia e la gente del rione, fosse anche la sola ragione che la tenesse attaccata a quel lungo strappo nel cielo di carta sopra la sua testa.
Accettare di essere inferno fino al punto di non sentirlo più. Anche in questo riconosco la sua ribellione e la faccio mia.
Eppure se dovessi fissarla sceglierei di parlare delle lunghe passeggiate insieme a Imma per la città di Napoli. In quelle ore trascorse insieme alla piccola, credici o no, non ci ho mai visto il tentativo di riacciuffare la memoria di Tina, la bambina perduta. Al contrario sono passaggi che mi infondono benessere, come se a quelle brevi gite avessi preso parte anche io. In quei momenti di vagabondaggio Lila stava dando a Imma la chiave per orientarsi nel labirinto della città, un tentativo tutto femminile di riappropriarsi dello spazio urbano.
Per farlo l’aveva di nuovo sbozzata a modo suo, riempiendola di fantasmi, fauni e castelli caduti in rovina. Mi piace pensare che avesse risposto al richiamo della città, e alla fine l’aveva inglobata non come un corpo estraneo, ma come un prolungamento di sé. Sono molto legata a quelle pagine.
O forse, no.
Ti direi che la vedo nitidamente solo quando stringe gli occhi e attraversa il cortile con fare attento per togliere il sapone dalle mani di Melina. La concentro tutta dentro quella figura piccola e nervosa. O dentro il negozio di Piazza dei Martiri, quando la sua voglia inarrestabile di storpiarsi è passata da lei, a Lena, fino ad attraversare anche noi che leggiamo.
Lì, china sulla sua foto da sposa con le forbici in mano, mi pare di vederla nell’ora della sua vera bellezza.
Una volta hai affermato che se un lettore ricama su un libro un pensiero autonomo dalle volontà di chi quel volume lo ha scritto allora è un lettore privilegiato. Stavolta mi sono arrogata il diritto di trasformarti nel “tu” al quale indirizzare il mio privilegio di lettrice, spero non ti infastidisca.
Per scrivere di Lila mi ero preparata uno schema con delle parole chiave, ma non l’ho rispettato. Concedimi però di pescare dal mio secchio pieno di parole una citazione che ho custodito per anni e che non posso non associare a lei e alle donne come lei, sono convinta che l’accostamento ti piacerà, è di Elsa Morante.
«Quelli come te, che hanno due sangui diversi nelle vene non trovano mai riposo né contentezza; e mentre sono là, vorrebbero trovarsi qua, e appena tornati qua, subito hanno voglia di scappar via. Tu te ne andrai da un luogo all’altro, come se fuggissi di prigione, o cercassi qualcuno [...]. Un sangue-misto di rado si trova contento in compagnia: c’è sempre qualcosa che gli fa ombra, ma in realtà è lui che si fa ombra da se stesso, come il ladro e il tesoro, che si fanno ombra l’uno con l’altro».
La foto è di Giovanni Castaldi.
Testo straordinario!👏👏👏seguirò il vostro lavoro su L’AMICA GENIALE.