Controcaffi, controcazzi, contro chi?
Denunciare la violenza di genere cambia la vita di una donna. E quella dell’uomo denunciato?
Innumerevoli conseguenze possono prefigurarsi nella vita di un uomo condannato in primo grado a quattro anni di reclusione per maltrattamenti e lesioni gravi ai danni dell’ex compagna. Tra queste, difficile immaginare la conduzione di un podcast eponimo.
Invece è proprio l’opportunità concessa al filosofo trentaseienne Leonardo Caffo, innalzato a conduttore di Controcaffo, un nuovo podcast della rivista online MOW.
Controcaffo si propone come «la rassegna stampa più cattiva della settimana» e «racconta di come i media, la cultura woke e l'impero del politicamente corretto impediscano di raccontare le cose del mondo per quelle che sono». Non è un caso che MOW, acronimo di Men on Wheels (uomini su ruote), sia una rivista pensata prevalentemente per un pubblico maschile.
Il podcast prende le mosse dall’esperienza di cui Caffo ha ritenuto di essere vittima quando un legittimo polverone mediatico lo ha portato a ritirare la propria partecipazione come speaker alla manifestazione «Più libri, più liberi».
Secondo Moreno Pisto, direttore di MOW, la richiesta da parte del pubblico di non amplificare, sotto una luce positiva, la voce di un uomo indagato per violenza di genere è equivalsa a una «ghettizzazione». È quindi per restituire a Caffo lo spazio che gli è stato negato che Pisto ha voluto affidargli la conduzione del podcast. «Io, al contrario vostro, darò sempre la parola a chi viene ghettizzato», ha scritto Pisto in un editoriale in risposta alle polemiche seguite all’annuncio.
Secondo noi non si può assolutamente parlare di «ghettizzazione» nel caso di Caffo. Anzi: ci sembra, al contrario, che non si stia considerando abbastanza nel dibattito pubblico la condanna in primo grado a quattro anni per maltrattamenti nei confronti della compagna.
Perché in questa storia ci sono soltanto due vittime, e Caffo non è una di loro.
Le vittime sono la sua ex compagna e sua figlia.
Il video di Caffo che reagisce alla sentenza professandosi innocente e sostenendo di essere stato colpito ad hoc «per educarne mille» ha fatto il giro di giornali, televisioni e social per giorni. Sul suo profilo Instagram, il filosofo continua a postare e opinare imperturbato di fronte a decine di migliaia di seguaci. Addirittura ha debuttato un podcast che porta il suo nome.
L’ex compagna vittima di violenza, nel frattempo, rilascia interviste con la voce mascherata per proteggere la sua identità. Il percorso per arrivare alla condanna in primo grado dell’uomo da cui ha subito violenza e dolore è stato lungo e difficile, racconta la donna, perché «chiunque denunci una situazione simile si scontra con un sistema che troppo spesso manca di strumenti adeguati per supportare le vittime».
È qui che emerge lo spudorato doppio standard che separa il vissuto delle donne denuncianti dall’esperienza degli uomini imputati. Da un lato vergogna, ritrosia, perdita; dall’altro nuove opportunità.
In un articolo sulla riabilitazione mediatica degli uomini accusati di violenza sulle donne, la giornalista Moira Donegan fornisce una serie di esempi per illustrare come raramente questi uomini paghino un prezzo importante in termini di dignità sociale.
Per Donegan, il modo in cui ritornano a far parte del dibattito pubblico avviene con una componente che sembra essere costante: la sfacciataggine.
A tal proposito, scrive (traduzione nostra):
Questi uomini sono riapparsi davanti alle telecamere in lacrime. Sono pronti, dicono, ad ammettere le loro colpe, a fare ammenda. Ma invariabilmente, quel che segue non è una scusa, quanto più una cauta smentita, una scappatoia. Non sono lì solo, si scopre, per pretendere la nostra attenzione; sono lì per invocare la reintegrazione. Ci ricordano, con il tono supplichevole di un lamento, che abbiamo il dovere di perdonare.
E sono moltissimi i casi in cui accade ciò.
Il doppio standard nella violenza di genere
L’attore Armie Hammer, accusato di stupro e di una serie di altri atti sessuali non consensuali inquietanti, degradanti e violenti, ultimanete sta rilasciando svariate interviste e soprattutto sta postando battute online sulla pornografia vore senza porsi il minimo problema.
Andrew Cuomo, che si è dimesso nel 2022 dalla carica di governatore dello stato di New York a causa di diverse accuse di molestie sessuali a suo carico, si sta ora candidando alla posizione di sindaco della città mentre, secondo una delle donne che l’ha denunciato, continuerebbe a attuare comportamenti violenti nel corso dei processi che lo vedono come imputato: «Ha mostrato in aula uno dei registri ginecologici delle sue vittime. Ha abusato legalmente di queste donne che gli stanno facendo causa in tribunale... L'abuso è andato avanti senza sosta. Ha appena preso una forma legale».
Il caso di Cuomo è significativo perché è emerso da un’indagine condotta dalla procuratrice generale di New York, Letitia James, che ha rivelato una serie di atteggiamenti inappropriati verso le sue collaboratrici, avendo cercato di toccarle, baciarle e abbracciarle. A questi gesti si sono aggiunti commenti descritti dalle vittime come «umilianti, molesti, offensivi e inappropriati».
L’indagine, documentata in un rapporto di 165 pagine, si è basata su 179 testimonianze e l’analisi di oltre 74mila documenti, tra cui email e fotografie. Joon H. Kim, uno degli avvocati che hanno guidato l’inchiesta, ha sottolineato che questi episodi non sarebbero stati eventi isolati, ma parte di un «modello di comportamento sistematico».
L’inchiesta ha inoltre evidenziato che Cuomo, insieme ad alcuni membri del suo staff, avrebbe messo in atto ritorsioni contro almeno una delle donne che l’hanno accusato, contribuendo a creare un ambiente di lavoro definito «ostile».
Le stesse ritorsioni di cui parla oggi la ragazza che ha rilasciato le dichiarazioni che vi abbiamo riportato in precedenza, che ha scelto – come accade in moltissimi casi di donne che denunciano le violenze subito – di parlare in anonimo.
Ciò perché nessuna donna che denuncia un comportamento violento non ottiene guadagni in termini di visibilità - come invece pensano i detrattori del movimento femminista. Tutto ciò che si ottiene è spesso umiliazione pubblica, e quindi l’unica scelta possibile è nascondersi per non subirla.
Squilibri di potere
In un articolo del 1997, «Violazioni del potere, cecità adattiva e teoria del trauma del tradimento», la psicologa di Stanford Jennifer Freyd ha coniato l'acronimo DARVO (Deny, Attack, Reverse Victim and Offender) - negare, attaccare, vittima inversa e colpevole - per caratterizzare le risposte di diversi uomini accusati di violenza domestica alla propria condotta: di solito vi è una negazione della violenza e un attacco alla credibilità delle donne che la denunciano.
«Più l'autore del reato è ritenuto responsabile, più sostiene di essere offeso. ... L'autore del reato si focalizza sull’offesa subita, e la persona che tenta di ritenere l'autore del reato responsabile deve difendersi», scrive Freyd.
Alla fine sono gli uomini accusati ad essere considerati «le vittime meritevoli della nostra compassione».
Un esempio affine a questa teoria è il caso dell’attore Kevin Spacey, accusato di molestie sessuali da più di 50 uomini, che in un’intervista con Piers Morgan è scoppiato in lacrime per il trattamento mediatico che ha subito, pur ammettendo la veridicità di almeno una o due accuse a suo carico.
«Ci sono stati eccessi da parte dei media… ma, per tua stessa ammissione, il tuo comportamento è stato estremamente inappropriato», riassume Morgan verso la fine dell’intervista. «A volte è stato non consensuale».
«Non mi comporterò più in quel modo», risponde Spacey. «E ora siamo arrivati al punto in cui ci chiediamo: OK, e adesso? Sto cercando una via per la redenzione».
In un articolo sul Guardian, l’editorialista Martha Gill ha commentato quest’intervista evidenziando un fatto: mentre parliamo dell’«ingiusto» trattamento riservato agli uomini accusati e condannati per violenze sulle donne, dimentichiamo i casi in cui sono state le donne che hanno denunciato questi abusi a essere completamente cancellate pubblicamente e costrette a nascondersi.
Donegan a tal proposito scrive:
Gill scrive come se stesse descrivendo una realtà ormai superata, ma l’uso del passato mi sembra fin troppo ottimistico: le donne che parlano di violenza vengono ancora punite per averlo fatto, spesso in modi sproporzionati, sadici, prolungati e dolorosamente intimi. Tuttavia, ha ragione nel sottolineare che molti dei destini funesti di cui si lamentano gli uomini accusati e i loro difensori sono stati, storicamente, inflitti quasi esclusivamente alle vittime.
L’elenco delle vittime non perdonate, emarginate per anni, continua Gill, è lungo: le attrici Mira Sorvino, Ashley Judd, Annabella Sciorra e Sophie Dix sono state escluse da Hollywood dopo aver rifiutato Harvey Weinstein. La carriera di Brendan Fraser è stata spezzata per decenni dopo che ha denunciato di essere stato molestato da un ex presidente della Hollywood Foreign Press Association. Quando la giovane Jane Seymour ha respinto le avances di un pezzo grosso di Hollywood, si è sentita dire: «Se lo racconti, non lavorerai mai più, in nessun posto del mondo».
Intendiamoci: il fine ultimo della lotta all’eliminazione della violenza sulle donne non deve essere la punizione, ma la prevenzione.
In questo senso, per rispondere al filosofo Leonardo Caffo che ha definito la sua condanna uno strumento per «colpirne uno, per educarne mille»: «colpire» un determinato soggetto non è il fine ultimo della nostra lotta.
Ciò che vogliamo e che ci auguriamo è che nessuna donna subisca una violenza di genere. Ma nel momento in cui l’ennesima vittima denuncia le violenze che ha subito, non reagiremo con indifferenza dinanzi alle accuse fasulle di «ghettizzazione» verso l’uomo denunciato.
In Italia esiste la presunzione di innocenza in ogni processo: ogni persona è considerata innocente fino a una condanna definitiva. Questo l’hanno ripetuto tutti i difensori di Caffo, sia nel caso della sua partecipazione a «Più Libri, più liberi» sia nel momento in cui è stato scelto come conduttore della nuova rassegna stampa Controcaffo su MowMag.
Ma il fatto che anche dopo la condanna in primo grado esista la presunzione di innocenza non significa che non possiamo avere un’opinione lucida, precisa e formata sui fatti emersi durante un processo.
Nel caso Caffo, le prove relative ai suoi comportamenti sono emerse in modo chiaro e pubblico durante il processo.
In una perizia di 40 pagine, è emerso che durante un litigio avvenuto nell’agosto del 2020 la mano della ex compagna di Caffo è stata «afferrata e contorta», mentre lui aveva descritto l’avvenimento come una caduta in doccia.
Questi non sono particolari irrilevanti, ma dettagli che non si possono non considerare nel momento in cui si sceglie a chi affidare una rubrica rivolta ad un grande pubblico.
Non possiamo fingere che la visibilità mediatica, in particolare quella ottenuta sui social, che sono il principale mezzo d’informazione per i giovani, non sia una forma di potere.
Un potere inaccessibile alle donne che denunciano le violenze subite.
Non c’è da stupirsi se la percentuale di donne che prendono il coraggio di sporgere denuncia è sempre molto bassa: appena il 5 per cento, secondo uno studio del Cnr del 2023, mentre chi sceglie di non denunciare cita come motivazione la vergogna, la paura nei confronti dell’aggressore, la sfiducia nei confronti del sistema giudiziario e la paura di non essere creduta.
Non sono solo percezioni: è la realtà dei fatti a dimostrare che per le donne che denunciano è difficile essere prese sul serio, mantenere intatta la propria dignità e trovare spazi in cui potersi esprimere senza giudizi negativi.
Agli uomini, invece, viene letteralmente consegnato un microfono. È un doppio standard che persiste, e non possiamo e non vogliamo ignorarlo.
Questo articolo è scritto con Enrica Nicoli Aldini, giornalista che cura la newsletter Anche una donna qui.
sempre un arricchimento leggerti e leggervi
oggi anche molto doloroso
aggiungo che sono anche molto incazzato
e non come uomo, ma come persona