Cosa ci dice il fallimento del referendum sulla cittadinanza?
Intervista a Pegah Moshir Pour
Se il fallimento dei quattro quesiti referendari sul lavoro può trovare una spiegazione – almeno parziale – nella sfiducia verso la politica di una parte significativa della classe lavoratrice, che da anni ha smesso di riconoscersi in strumenti che promettono diritti ma non riescono più a garantirli, non si può interpretare allo stesso modo il segnale che arriva dal quinto quesito, quello dedicato alla cittadinanza.
Il quesito che proponeva di ridurre da dieci a cinque anni il periodo minimo di residenza necessario per richiedere la cittadinanza italiana ha raccolto il consenso del 65,49% dei votanti, mentre le altre quattro domande, tutte incentrate su aspetti legati alla precarietà del lavoro, hanno superato l’87%.
Uno scarto significativo, che non può essere trattato come un mero dato tecnico: ci dice qualcosa di più profondo.
Perché in questo caso una parte dell’elettorato che ha partecipato al referendum (quindi persone che, letteralmente, si sono recate alle urne per votare), pur dichiarandosi favorevole all’estensione di alcuni diritti sociali in ambito lavorativo, ha respinto l’idea che si possa accedere più rapidamente a pieni diritti civili e politici, con l’ottenimento della cittadinanza.
La proposta referendaria chiedeva semplicemente di modificare un termine temporale, allineandolo agli standard europei.
In molti Paesi dell’Unione Europea (come Francia, Germania, Portogallo e Svezia), infatti, cinque anni sono considerati un periodo sufficiente per ottenere la cittadinanza.
Nel dibattito pubblico, la cittadinanza è diventata una specie di premio morale, da attribuire solo a chi ha dimostrato di “meritarsela”.
Una narrazione che è stata rafforzata dal linguaggio della destra — e in particolare dall’attuale governo, che ha contribuito ad alimentare l’idea della cittadinanza come concessione, come atto discrezionale dello Stato, più che come diritto connesso alla partecipazione e alla presenza sul territorio.
Cosa che, invece, dovrebbe essere: un diritto.
In questa prospettiva, l’elettorato sembra aver risposto come se fosse stato chiamato a scegliere non tanto su una legge, ma su una visione di Paese. Una visione, quindi, che continua a escludere.
Ne ho parlato con Pegah Moshir Pour, consulente e attivista per i diritti umani e digitali, da anni impegnata su questi temi.
Pegah Moshir Pour è nata in Iran nel 1990 e si è trasferita in Italia con la sua famiglia a nove anni.
Nel suo libro La notte sopra Teheran (Garzanti, 2024), che è un romanzo autobiografico in cui la sua storia personale si mescola a quella del quadro politico iraniano, racconta anche un episodio significativo della sua adolescenza: il momento in cui a quindici anni non ha potuto partecipare a una gita scolastica a Londra.
All’epoca non aveva ancora la cittadinanza italiana, e quindi neppure il passaporto necessario per viaggiare.
Un dettaglio burocratico che ha segnato con chiarezza il confine tra l’integrazione vissuta e quella formalmente riconosciuta.
Pegah, perché non abbiamo raggiunto il quorum all’ultimo referendum? Soprattutto, perché secondo te i “sì” espressi alla cittadinanza sono stati inferiori rispetto a quelli incassati dalle altre quattro domande sul lavoro?
Non abbiamo raggiunto il quorum perché non hanno voluto, ovviamente, raggiungerlo.
Da come si vede, non sono solo le persone di destra a non credere nel quinto quesito, che in realtà è un ritorno a come era la legge originaria, ma anche le persone di sinistra.
Sicuramente non sono state raccontate le storie delle persone legate a questo tempo immenso (per ottenere la cittadinanza, ndr) che non sono solo 10 anni, ma anche gli altri anni che riguardano la burocrazia in Italia.
Poi è stato tutto raccontato accostato all’immigrazione clandestina, come al solito, quindi noi che nasciamo e cresciamo in Italia, che contribuiamo a portare avanti - sostanzialmente - questo Paese, non veniamo riconosciuti.
Offese su offese anche da parte di persone che si reputano inclusive, invece si vede che così non non è stato.
Poi sicuramente aver utilizzato un linguaggio poco comprensibile sulle domande dei referendum non ha facilitato la comprensione e tantomeno c'è stata un'informazione prima.
Abbiamo visto che nella tv nazionale non c'è stato alcun dibattito, non c'è stata alcuna spiegazione, a casa non è arrivato nessun depliant che spiegasse cosa fossero questi cinque quesiti, quindi è stato qualcosa di non voluto come al solito.
Poi ovviamente il disincanto dalla politica porta le persone più ad astenersi che altro. È stato un insieme di cose che sicuramente non beneficiano questo Paese.
Mi auguro che d'ora in poi cambi anche il referendum, perché il quorum magari ottant'anni fa aveva un senso, ma oggi invece no, non ha senso, andrebbe abolito, tolto, esattamente come in Svizzera.
Considerando questi dati, quali sono le consapevolezze a cui dovremmo arrivare in futuro?
In futuro sicuramente dobbiamo essere più uniti. Soprattutto essere più chiari.
Purtroppo, però, non avendo gli spazi tradizionali, in particolare dalla televisione che arriva a più persone, a quelle che sono andate a votare, c’è questo problema: il non raccontare quelli che siamo noi, i ragazzi di terza cultura, che vivono le scuole e quindi le persone che anche generazionalmente possono capire.
Purtroppo non è stato voluto questo. Quindi noi dobbiamo continuare a parlare, continuare a discutere e non smettere di essere entusiasti e di volere un’Italia diversa.