Dal fondo dell’insopportabile
L’AMICA GENIALE 4 - La sparizione di Tina, la smarginatura corporea di Lila e il racconto di un’amicizia negli ultimi due episodi
La smarginatura, la sensazione provata da Lila nel corso di tutta la tetralogia L’amica geniale, ovvero percepire il contorno delle persone e delle cose spezzarsi, perdere forma, è il fulcro da cui partire per commentare il finale della quarta stagione de L’amica geniale – Storia della bambina perduta.
In questo caso, la smarginatura non è soltanto una sensazione, ma si concretizza nel momento in cui Lila decide di allontanarsi da tutto e tutti. Una scelta che prende in seguito all’improvvisa sparizione della figlia Tina, avuta da Enzo.
Di Tina, nell’ottavo episodio, si perderà ogni traccia e nessuno saprà mai che cosa le sia accaduto. È una questione aperta. Sono stati i Solara? Qualcuno che vuole fare un torto a Lila? O forse a Elena, pensando che Tina sia sua figlia?
Non possiamo rispondere, e non dobbiamo — per forza — farlo. Perché Elena Ferrante non ci fornisce delle spiegazioni lineari, ma molteplici possibilità di lettura, rappresentando una sensazione che non ci è estranea: l’impotenza dinanzi a situazioni orribili.
Ferrante, infatti, in una delle interviste contenute ne La Frantumaglia, afferma:
«Il problema è assistere impotenti a ciò che accade di orribile alla gran parte degli esseri umani più deboli. È un’esposizione quotidiana all’intollerabile e niente, né le utopie politiche, né quelle religiose, né quelle scientiste, riescono ad acquietarti. […] La frase: “io non ci sto”, quando arriva dal fondo dell’insopportabile, a me pare una frase densa, carica di senso, e tutta da raccontare».
È proprio questa frase, «io non ci sto», che muove Lila nella sua volontà di fuggire: non come un crollo di fronte alla violenza, ma come un rifiuto netto.
Il motivo ricorrente nell’intera tetralogia, la dinamica su cui si basa tutto, è d’altronde questa: la sparizione di una bambina, anzi due.
Con Tina, infatti, sparisce anche Lila (che non si suicida, come erroneamente molti pensano, ma si allontana da tutto ciò che è stato il suo mondo negli anni), e con Lila sparisce la bambina che il padre, contrario al suo desiderio di studiare, aveva scaraventato dalla finestra anni prima perché, a suo dire, «solo una femmina» e quindi inadatta allo studio.
Con Tina, e poi con Lila, sparisce anche una parte di Napoli, quella del rione, che è tanto un grembo materno quanto un luogo di perdizione; spariscono le ricerche sulla città avviate da Lila negli ultimi vent’anni della sua vita, le leggende raccontate alle figlie di Lenù.
La professoressa di Letteratura Italiana all’Università per Stranieri di Siena Tiziana de Rogatis, nel suo saggio Elena Ferrante. Parole chiave, scrive che «Napoli è al tempo stesso un luogo di appartenenza e di estraneità: come la madre, è l’amata non amata, un luogo che ispira nella figlia al tempo stesso un amore e un distacco — entrambi furiosi».
Lila si distacca dalla sua città, che ha tanto amato quanto odiato, e si taglia via da tutto: persino dalle foto di famiglia, che Rino ritrova a pezzettini nell’armadio della madre.
Con la restituzione delle bambole a Lenù — le due bambole con cui le due amiche giocavano da bambine, e che poi avevano perso, pensando le avesse rubate don Achille (ora scopriamo, invece, che in realtà è sempre stata Lila ad averle) — si chiude definitivamente quello che de Rogatis definisce «il filo che le aveva unite e che entrambe avevano cominciato a svolgere proprio sessanta anni prima».
Le due bambole, l’unico collegamento tra Lila e la sua «vecchia» vita, rappresentano l’ultimo messaggio che Lila vuole comunicare alla sua amica: la volontà di non farsi più vedere, di smarginarsi definitivamente.
Ferrante ci insegna che le dicotomie perfette non esistono. Il vantaggio di accompagnare dei personaggi lungo un arco narrativo così lungo — dal 1954 circa al 2010 — è quello di registrare il cambiamento della geografia sociale lungo spazi definiti (il rione, l’Italia intera), mentre il tempo è intervallato dai cosiddetti “microeventi”.
Elena Greco, opinione questa diffusa, è la narratrice inaffidabile per antonomasia, l’unica forse possibile nella letteratura contemporanea raccontata da donne, che si muove sul filone inaugurato già con Modesta de L’arte della gioia.
Quando pensiamo a Elena, vediamo l’integrità morale di un personaggio frantumarsi e capitolare fino al punto di partenza. L’ascesa sociale, forse un po’ controvoglia, occupa un posto rilevante all’interno della tetralogia, e il correlativo-oggettivo la fa da padrone, a cominciare dalle bambole e da Piccole donne.
Analizzando l’opera nel suo complesso, Elena è il personaggio più “umano” al quale possiamo accostarci. Anche lei come ogni antieroina che si rispetti è toccata dalla maledizione dell’eterno ritorno. Così nell’età matura la sua carriera di scrittrice si barcamena tra convegni colmi di gente sempre più insofferente nei confronti di chi, ora per assecondare questo o quell’altro movimento, preferisce mantenersi su posizioni mediane piuttosto che intervenire in modo significativo sul presente.
Seguendo il punto di vista di Elena, ciò che serpeggia nella mente del lettore è l’idea che ogni suo successo si innesti su improvvisi colpi di fortuna, o peggio, su operazioni truffaldine. Ritornare al rione è un esperimento di ricomposizione nel quale ogni scrittrice/scrittore si riconoscerebbe senza troppi sforzi. Desiderio che però - e questo appare subito evidente - poggia sia sulla volontà di riappropriarsi dei codici della violenza per non subirla più, sia sul pungolo corroborante di Lila. Come durante la loro corsa verso il mare, Elena si sente scollata dalle sue stesse azioni.
Come racconterà a Enzo Scanno nelle pagine finali del quarto romanzo, scrivere per lei è diventato un obbligo antipatico e fatica a sentirsi presente nonostante le copie vendute, i grandi titoli sui giornali.
Significativa poi è anche una scena che ha luogo parecchi anni dopo, nella nuova casa sul Po. È il 2002; Dede, Elsa e Imma rientrano sempre meno in Italia, la loro vita vera è altrove. In questo passo, Elsa legge a voce alta qualche frase da uno dei libri che Elena, non senza fatica, aveva scritto. Le figlie, che non avevano mai letto niente che fosse appartenuto alla loro madre, vivevano una vita piena di privilegi che era il fondamento dell’infanzia senza privilegi di Lenù, e il risultato era stato possibile solo perché lei, dal rione, non aveva mai ceduto di un millimetro.
Tutto era evidente in questi nuovi corpi che prendevano poco seriamente il suo vecchio culto per la letteratura e i libri, e lo riducevano a niente.
C’è poi tutta la questione sul rifiuto di riconoscersi in un racconto biografico che gravita attorno all’ultimo romanzo che Lenù scrive a cui dà il titolo Un’amicizia. Il racconto di poco più di ottanta pagine è il motivo per il quale le due amiche non parleranno mai più perché muove da un patto che Lenù non rispetta: anni prima, nel 2005, Lila le aveva fatto promettere che non avrebbe mai scritto di lei per nessun motivo. Ma anche questo testo nasce da un equivoco.
Come era stato per La fata blu, Elena teme che Lila stia intrecciando trame fittissime attorno a un testo fantasma sulla città di Napoli. Il timore, la voglia di vederla prendere corpo in una scrittura disordinata ma potente, capace di ammaliare sale intere, la spinge a scrivere un testo che parla, senza mezzi termini, della loro amicizia fino alla sparizione di Tina, la bambina perduta nel 1984. Anzi, Elena insiste molto sulla ricorrenza di questo nome nella trama del loro legame: anche la bambola dello scantinato si chiamava Tina, in un gioco di rimandi che il lettore non può non notare.
Il risultato è che Un’amicizia - l’unico libro di Lenù del quale conosciamo il titolo - è l’infiorescenza del testo fantasma di Lila che forse non è mai nemmeno esistito. Tutto è, come sempre nei testi di Ferrante, nascosto dietro equivoci, come la restituzione delle bambole.
Bisogna sottolineare che in questa volontà antimelodrammatica di Lila di cancellarsi, di non esistere neanche tra le parole di Elena, Ferrante rovescia uno dei temi chiave della filosofia della narrazione di Adriana Cavarero, a cui anche l’autrice dichiara di essersi ispirata durante la stesura dell’Amica geniale.
In Tu che mi guardi, tu che mi racconti, Cavarero pone l’accento sull’importante ruolo svolto dai gruppi di autocoscienza femminista negli anni Settanta, nocciolo poi della pratica di autonarrazione che muoveva dall’ascolto reciproco di altre donne e dall’avanzare sempre più in uno spazio che da privato diventava pubblico, e quindi anche politico.
L’autobiografia viene stimolata dall’ascolto biografico. Sebbene però il movimento femminista tendesse a ridurre l’unicità dell’io narrante a un noi nel quale riconoscersi, e quindi la collettività prevaleva sul singolo omologando difficoltà e sopraffazione, per Cavarero la narrazione deve generarsi grazie al riconoscimento di due punti fondamentali: desiderio di essere riconosciute, e quindi di essere raccontate in quanto organismi viventi; scrivere tutelando quell’unicità senza la quale non esisterebbe l’io, non esisterebbe il tu.
Secondo Cavarero, inoltre, se una conoscente sa la nostra storia, solo le vere amiche (amicizia e amore in fondo condividono la stessa radice etimologica) sono in grado di raccontarla a loro volta.
In questo, Lila e Lenù conservano sempre la loro unicità e inafferrabilità rispetto all’altra grazie alla quale esistono. Così, Elena è in grado di mettere in ordine la sua vita, anche con un certo distacco soprattutto verso la fine, solo perché Lila non c’è.
L’assenza genera l’indagine autobiografica, la biografia è invece il simbolo di un patto che viene a rompersi.
D’altronde, Ferrante ha amato molto Lila perché scrivere di lei le ha procurato immensa fatica, ma anche un intenso piacere. Come se, attraverso il suo alter ego letterario, mettesse in scena anche l’insufficienza della letteratura di fronte a persone come Lila, non riducibili ad alcunché.