Donne, razza e classe: Angela Davis è (ancora) importante
Donne, razza e classe: è attorno a questi tre assi concettuali che si sviluppa l’omonimo libro di Angela Davis, che è poi diventato essenziale per lo sviluppo del femminismo intersezionale. L’autrice rende noti i motivi per cui scrive questo testo in un saggio pubblicato nel 1971, mentre si trova in carcere: il primo è la volontà di sfatare il mito del matriarcato nero e il secondo è mettere in luce il ruolo dimenticato delle donne nere nelle ribellioni contro lo schiavismo.
Secondo il mito del matriarcato nero, le donne avrebbero addirittura tratto dei vantaggi dallo schiavismo che, rompendo il classico schema dei rapporti familiari tradizionali, avrebbe conferito loro potere e autorità rispetto agli uomini. Questo, chiaramente, non è affatto vero. E Davis smentisce questa tesi dimostrando l’esistenza, nel tempo, dello stereotipo della donna nera “aggressiva” e “castrante” e poi denunciando tutte le atrocità vissute dalle donne nere durante lo schiavismo, vittime di stupri ripetuti e viste come “generatrici” di bambini. Ma erano anche donne che lavoravano nei campi e vivevano una doppia oppressione: lavoravano esattamente quanto gli uomini, potevano aspettarsi le stesse frustate se non avessero svolto “propriamente” i turni giornalieri, ma, allo stesso tempo, erano vittime di violenze che si ripercuotevano esclusivamente su di loro (come, appunto, lo stupro). A tal proposito, nel primo capitolo, L’eredità della schiavitù, l’autrice scrive: “Lo stupro era un’espressione esplicita della supremazia economica del proprietario e del controllo del sorvegliante sulle donne Nere in quanto lavoratrici”.
In alcune realtà, le stesse punizioni spettavano anche alle donne incinte. Da una testimonianza riportata dall’autrice, infatti, si apprende: “Una donna incinta che ha commesso una violazione nel campo è obbligata a sdraiarsi su una fossa adatta a contenere il suo pesante corpo, dopodiché viene sferzata con una frusta o battuta con un manico perforato. A ogni colpo si forma una piaga”. In altre fattorie, le donne ricevevano un trattamento più “indulgente”, ma non di certo per ragioni umanitarie: il proprietario apprezzava il valore di un bambino nato schiavo allo stesso modo in cui, scrive l’autrice, “si apprezzava il valore di un puledro o di un vitello”.
Nel frattempo, nel discorso pubblico, “donna” divenne sinonimo di “madre” e “casalinga”, chiaramente tutto con uno stigma di inferiorità. Ma le donne nere non potevano riconoscersi neanche in questo lessico. Vivendo ulteriori forme di oppressione, erano, scrive Davis, a “malapena considerate donne”. E, continua, “le relazioni maschio-femmina all’interno della comunità degli schiavi non potevano pertanto conformarsi al modello ideologico dominante”.
Il mito del matriarcato nero influenzò molto anche il movimento black power degli anni Sessanta, che si legava alla tendenza di riconquistare la “mascolinità” degli uomini. Elaine Brown - attivista americana - nel suo libro In A Taste of Power racconta proprio dei diversi e ripetuti episodi di sessimo, violenze e molestie subiti da donne attiviste del movimento in quegli anni.
Angela Davis riflette anche sulle contraddizioni presenti nel movimento femminista degli anni Sessanta e Settanta, che reputa “cieco” rispetto alla validazione delle differenze di esperienze vissute dalle donne nere. E spiega anche che le donne nere non sono mai state indifferenti rispetto alla mobilitazione per la contraccezione e l’aborto, e non hanno “interiorizzato teorie sessiste”, come molte femministe hanno creduto nel tempo, ma si sono sentite spesso abbandonate e non considerate da una parte del movimento femminista che non ha saputo riconoscere le politiche eugenetiche di cui sono state vittime. L’autrice invita anche le femministe nere a riflettere e rivalutare relazioni sociali come la famiglia e la comunità.
L’analisi dei rapporti di classe è importante, dunque, per ricostruire questi avvenimenti. Ma, più che puntare alla connessione soggettiva tra oppressione di genere, razziale e sfruttamento di classe, Davis sviluppa un approccio marxista in merito al rapporto strutturale tra capitalismo americano e oppressione delle donne di colore. E ciò si evidenzia soprattutto nell’ultimo capitolo, che si chiama Verso la fine del lavoro domestico, in cui scrive: “L’abolizione del lavoro domestico è un obiettivo strategico per la liberazione delle donne. Ma la socializzazione del lavoro domestico presuppone la fine del regime del profitto economico”. Inoltre, nel capitolo che si chiama Lavoratrici, donne nere, e la storia del movimento suffragista, l’autrice spiega che nell’esclusione delle donne nere dal movimento suffragista si evidenzia anche un marcato carattere di classe e, dunque, ha colpito le donne della classe operaia, sia bianche che nere.
L’autrice ci invita ad abbandonare l’idea della donna come soggetto omogeneo e si sofferma su un punto: l’oppressione di genere assume forme diverse in base all’etnia, alla classe, alla religione e alla posizione sociale. Perché le donne - considerando questi elementi - hanno vissuto (e continuano a vivere, anche se diversamente dal passato) storie diverse, esperienze diverse, e la battaglia delle donne nere non può essere uguale a quella delle donne bianche perché, ogni tipo di liberazione, per potersi considerare reale, deve soffermarsi sulla storia vissuta, sui problemi presenti, e, dunque, sulle differenze.