I contorni delle cose e delle persone si spezzano
L’AMICA GENIALE 4 - Maternità, essere (nuovamente) figlia, smarginatura, guardare dove c’è lo spavento negli episodi 3 e 4
Buongiorno,
oggi io e Francesca Perricci vi proponiamo i commenti che abbiamo scritto sugli episodi tre e quattro de L’amica geniale 4 — Storia della bambina perduta, andati in onda ieri su Rai1.
Abbiamo approfondito molte tematiche: la maternità declinata in varie forme, la smarginatura di Lila e Lenù, lo sdoppiamento tra Nino e Donato. Il tutto con la tendenza dei protagonisti della tetralogia: guardare dove c’è lo spavento.
Io mi sono occupata del terzo episodio e Francesca del quarto.
Buona lettura
Anna
Ep. 3 — Compromessi
Il terzo episodio de L’amica geniale 4, Compromessi, inizia con uno sguardo sul Rione Luzzati. Mentre Lenù si dirige con le figlie Dede ed Elsa verso la casa in cui viveva da ragazza per incontrare la madre, sullo sfondo scorrono i palazzi ormai vecchi, il chiasso, i motorini che sfrecciano, il suono del dialetto napoletano.
In una lettera al regista Mario Martone contenuta nella raccolta La Frantumaglia, Elena Ferrante definisce il dialetto «uno spazio lasciato vuoto dal racconto», dato che nella tetralogia raramente lo riporta per inciso, optando quasi sempre per delle parafrasi o formule come: «Lila lo disse in dialetto».
In una delle interviste contenute nella stessa raccolta, Ferrante afferma:
«Il dialetto è per me il deposito delle esperienze primarie. L’italiano le estrae da lì e le dispone sulla pagina cercando registri espressivi adeguati. Ma i miei personaggi hanno sempre l’impressione che il napoletano sia ostile e custodisca segreti che non potranno mai entrare del tutto nell’italiano».
Così come nel romanzo, nella prima scena del terzo episodio la lingua del rione sembra rappresentare un elemento che caratterizza la parte più intima dei suoi personaggi: un suono che lo spettatore percepisce come un eco in sottofondo, mentre la vita di Lenù e delle sue figlie continua.
Quando Dede chiede a Lenù «ti piaceva vivere qui da piccola?», lei risponde che «era un’altra cosa», ma la nuova realtà del rione non è poi così diversa dal suo passato: lì ci sono i suoi genitori, i suoi fratelli, sua sorella, gli amici di sempre, Lila. Subito dopo, infatti, riflette sulle parole della figlia, e noi seguiamo i suoi pensieri: «Era davvero cambiato tutto? O ero io che non ero pronta a ricongiungermi con il mio passato?».
Ricongiungersi con il suo passato significa soprattutto ricongiungersi con Lila: un possibile riavvicinamento con lei le fa paura, perché non vuole essere «riassorbita» nel suo mondo.
In realtà, Lenù non vuole essere riassorbita dal modo in cui Lila si rivolge a lei, dalla sua schiettezza, perché sa che la sua amica saprebbe mostrarle senza censure le contraddizioni che fanno parte della sua nuova vita, con Nino, in una nuova casa a Posillipo. E accade, infatti, quando si rincontrano poco dopo nell’androne del suo palazzo e Lila le dice:
«E che è il mare, da là sopra? Un po’ di colore. Meglio se ci vai vicino, così ti accorgi che è monnezza, lota, pisciazza, acqua impestata. Ma a voi che scrivete i libri vi piace dirvi le bugie, non la verità».
Tuttavia, nonostante la — breve — lontananza emotiva, c’è una connessione intrinseca tra Lila e Lenù, una sorta di vicinanza tra loro anche nei corpi, che emerge in questa puntata perché le due scoprono di essere incinte nello stesso periodo.
Lenù aspetta un figlio da Nino, e Lila da Enzo.
Nella scena in cui parlano della loro futura maternità («Sono incinta», afferma Lila, e Lenù risponde: «Lì, anch’io») si coglie chiaramente come riescano ad entrare in simbiosi, ma nel periodo successivo si evidenzia un distacco tra le due sul piano della percezione sensoriale: per Lila la gravidanza è un tormento, per Lenù un momento sereno.
Elena Ferrante rappresenta sempre la maternità in modo non stereotipato (l’ha fatto anche nella scena in cui Lenù è in viaggio verso Milano, quando pensa di amare Nino «più delle sue stesse figlie»), non rientrando nel canone della donna-madre-angelica.
Nel romanzo, Lenù descrive così il periodo della gravidanza condiviso con Lila:
«I mesi della gravidanza passarono veloci per me, malgrado le preoccupazioni, e assai lenti per Lila. Dovemmo constatare spesso che avevamo un sentimento dell’attesa del tutto diverso. Io dicevo frasi tipo: sono già al quarto mese, lei frasi tipo: sono solo al quarto mese».
Daniela Brogi, professoressa di Letteratura italiana all’Università per Stranieri di Siena, nel suo articolo Sé come un’altra. Su «L’amica geniale» di Elena Ferrante scrive che potremmo definire l’amicizia tra Lila e Lenù «molesta», riprendendo una parola che fa parte del romanzo L’amore molesto di Elena Ferrante:
«Si diceva amicizia molesta, per intendere “scomoda”, “tormentata”, come le relazioni affettive che rimettono in gioco le vulnerabilità legate al modello primo della relazione d’amore, ovvero il rapporto con la madre (il tema più trattato da Ferrante); dunque molesta anche nel senso di un legame improntato da un amore e da un conflitto eterno, fatto di reciproche ossessioni, di una ragnatela continua di tradimenti, abbandoni, nuove illusioni».
Non è un caso, infatti, che quest’episodio abbia un solo nucleo centrale declinato in varie forme: la maternità, attraverso le gravidanze di Lila e Lenù e il «nuovo» rapporto di Lenù con la madre Immacolata.
Tiziana de Rogatis, professoressa di Letteratura italiana all’Università per Stranieri di Siena, nel saggio Elena Ferrante. Parole chiave definisce la relazione tra Lenù e la madre (in realtà è la rappresentazione che propone Lenù di sua madre nel romanzo) una «intrusione invasiva»; l’amicizia con Lila è invece per la studiosa a tratti una «variante di questa fusione persecutoria»:
«La voce narrante di Elena rievoca il proprio bisogno infantile di sostituire al passo strascicato della madre zoppa quello sicuro, volitivo, della piccola Lila, al corpo repellente della prima quello agile e scattante della seconda».
Nel primo incontro tra Lenù e la madre Immacolata, Lenù cerca di abbracciarla, ma lei si sottrae e non esista a mostrarle tutta la sua disapprovazione. «Tu a chi comandi, a quella merda di Sarratore?», le chiede, gettandole addosso tutte le contraddizioni della sua nuova vita, proprio come ha fatto Lila precedentemente.
Immacolata e Lila mostrano a Lenù qualcosa che lei non è ancora capace di riconoscere: la solitudine in cui è destinata a vivere con Nino, che si manifesta nella scena successiva nella casa a Posillipo.
Il rione è un posto angusto all’apparenza, ma rappresenta tutto ciò che Lenù vuole riprendersi, le persone che nonostante tutto le vogliono davvero bene; in via Petrarca, nella Napoli «bene», Nino non mangia a tavola con lei nonostante gli abbia preparato la cena, ma le comunica che l’hanno invitato a New York per un convegno e vuole andarci con lei.
A Nino interessa il vantaggio che Elena può portare nella sua vita in ambito culturale: è infatti lei, nel romanzo, che propone alla casa editrice per cui lavora il nuovo libro di Nino.
In occasione del viaggio a New York, è Lila a prendersi cura delle figlie di Lenù, che si affezionano molto a lei. E Lenù riscopre dei tratti della sua amica che le sembrava di aver dimenticato:
«[Dede ed Elsa] sembrarono più serene. E io registrai quei cambiamenti con sollievo. […] Era quella, in realtà, la Lila a cui volevo bene. Sapeva spuntare all’improvviso dal di dentro della sua stessa cattiveria sorprendendomi. Sbiadì di colpo ogni offesa — è perfida, lo è sempre stata, ma è anche molto altro, bisogna sopportarla — e riconobbi che mi stava aiutando a fare meno male alle mie figlie».
La seconda manifestazione della solitudine di Lenù è rappresentata nell’incontro casuale con Nino e la moglie Eleonora durante una passeggiata a Napoli: un’occasione in cui non sembra la compagna di Nino, ma un’amante costretta a nascondersi.
Eleonora le mostra tutto il suo disprezzo, Nino si allontana con lei e Lenù non può far altro che seguirli con lo sguardo.
A Posillipo, poco dopo, Nino regala a Lenù l’ennesimo contentino dopo l’ennesima lite (lei che gli dice: «Io ho lasciato mio marito, io sono venuta a stare a Napoli, io ho cambiato da cima a fondo la mia vita, tu invece hai ancora la tua, ed è intatta», mentre lui ribadisce che «ama lei» e «il resto è uno sfondo necessario»): un pranzo a casa dei suoi, per farle capire che è lei la sua «vera moglie». Intanto, a casa, c’è sempre Eleonora ad aspettarlo con i figli.
In quest’occasione, Lenù incontra dopo molti anni Donato Sarratore, il padre di Nino. E, guardandolo, pensa: «Non è possibile che io, io ragazzina, ai Maronti, sono stata con quest’uomo laido».
Donato mostra la sua parte più viscida quando le chiede: «È vero che a Ischia leggevi il mio libro prima di andare a dormire?».
È una scena ambivalente: da un lato Donato cerca di legittimarsi come uomo potente appropriandosi dei successi di Lenù; dall’altro cerca di riportare nel presente un legame che non esiste, se non nel ricordo che ha Lenù del rapporto sessuale con Donato come evento traumatico della sua vita.
La regia inquadra Donato e Nino insieme: in questo momento Donato non è altro che una versione più vecchia di Nino, il suo doppelgänger, la sua parte più cattiva. Lo specchio in cui Nino si riflette nonostante i suoi tentativi di fuga.
È questa, più di tutte, la consapevolezza che Lenù vuole ignorare.
Immacolata e Lila nel tempo del «nonostante»
Questa puntata si conclude con l’inizio di un nuovo legame tra Lenù e la madre Immacolata. Nell’abbraccio — quello che all’inizio Immacolata aveva rifiutato, ma che ora accoglie — che le due si scambiano prima di entrare dal medico che comunicherà loro la malattia di Immacolata, si percepisce un’intimità tra madre e figlia mai sperimentata prima. Nel romanzo, Lenù descrive così il momento:
«Mi emozionò che se ne stesse aggrappata a me per non perdersi, come io da piccola alla sua mano. Più lei diventava fragile e impaurita, più io ero fiera di trattenerla nella vita. […] Mi rivelò che l’unica cosa bella della sua vita era stato il momento in cui io le ero uscita dalla sua pancia, io, la sua prima figlia. […] Mi rivelò, infine, che l’unica vera figlia ero io […] Quando mi abbracciava prima che me ne andassi, sembrava che lo facesse per scivolarmi dentro e restarci come una volta io ero stata dentro di lei».
Quello tra Immacolata e Lenù negli anni è stato sempre un rapporto tormentato, che ora si dipana in quella che la filosofa Adriana Cavarero definisce, nel saggio Tu che mi guardi, tu che mi racconti, la «lingua del nonostante».
L’amore materno parla questa lingua, una lingua immortale che si manifesta come un’apparizione: l’inaspettato che, in realtà, avevamo atteso da sempre.
Lenù accoglie il cambiamento, accoglie senza riserve il ritorno ad essere figlia:
«A partire da quel momento si ridusse sempre di più il tempo in cui [Immacolata] taceva rancorosa e crebbe quello in cui si confidava senza inibizioni».
Ep. 4 — Terremoto
«Volevo che contro la fissità del luogo di nascita», scrive Ferrante nella Frantumaglia, «Elena e Lila fossero mobili, che si attraversassero l’un l’altra come se fossero d’aria».
Il ritorno di Lenù a Napoli e nel microcosmo del rione appare sin da subito come una messinscena da intellettuale; da Via Tasso (Via Petrarca nella serie) il rione è una pietraia innocua, vivida solo nel fulgore che Lila continua a spandere per le strade come una santa guerriera.
Le sue leggi, la fitta rete sociale che è dura a morire anche se il tempo passato gli ha regalato una facciata apparentemente nuova rimangono fuori, la sfiorano appena.
Nel bell’appartamento insieme a Nino, Elena adulta si ricongiunge con la ragazza audace di qualche decennio prima, quella della festa della professoressa Galiani nella casa di Corso Vittorio Emanuele. Ecco cosa significa discutere di politica, di bei libri, com’è lieta questa espansione accanto a Nino. Eppure, per Ferrante andare via - come ha fatto Lenù - non significa tradire le proprie origini. Al contrario, il suo alter ego letterario incarna alla perfezione il paradosso dello straniero che è incapace di annidarsi nello spazio che sta dentro e in quello che sta fuori.
Se l’ascesa sociale fatica a trovare degli appigli solidi («cosa sono per gli Airota», leggiamo nel terzo volume della tetralogia, «il fiore all’occhiello delle loro larghe vedute?!»), ritornare alla città della madre significa prendere atto della propria inettitudine.
Gli amici del rione si muovono seguendo un patto segreto che è noto soltanto a loro; Elena, accolta come una persona perbene che è stata capace di fare grandi cose e di scrivere libri, sente che quel mondo non può più sformarla come da piccola, e partecipa raccontando i fatti da una prospettiva che è sempre esterna, opaca, come nella scena d’apertura dell’episodio nel negozio di abiti premaman.
Alfonso, leggiamo nel romanzo, seguiva Lila come un’ombra, come se avesse la necessità di non perderla mai di vista. «Dài», gli aveva detto lei scegliendo un abito, «fammi vedere come mi sta».
In questa occasione è Lila a smorzare le premesse affinché si venga a instaurare una confidenza profonda tra i tre vecchi amici del rione, come se Elena, venendo appunto da fuori, avesse visto e sentito abbastanza e non potesse partecipare fino in fondo a questo loro reciproco rispecchiarsi/riconoscersi.
Elena, continua Ferrante, con la sua ferrea autodisciplina è il tormentato punto d’arrivo del vecchio sistema; Lila, invece, ne mette in scena il fallimento e il possibile futuro. Ed è proprio su questo doppio binario che si innesta la scena cardine del quarto romanzo.
Abbiamo già fatto menzione del rapporto tra Ferrante e la Storia. Mi appoggio nuovamente alle tesi esposte dal professor Raffaele Donnarumma nel suo Il melodramma-l’antimelodramma, la Storia: sull’Amica geniale di Elena Ferrante.
Secondo il professore, Elena Ferrante avrebbe dato vita a una controtendenza letteraria. Scrivere un racconto così lungo che copre un arco narrativo di circa sessant’anni significa attraversare di petto i Grandi Fatti storici, che nella narrativa ferrantiana rimangono volutamente marginali. Rimangono marginali perché a raccontarli, a portarseli addosso, sono le donne. Gran parte della narrativa raccontata da uomini ha invece scelto di riferire quegli stessi fatti da una prospettiva centrale, da protagonista.
Ferrante sottopone la Storia a un esame rigoroso, costringendola a misurarsi con le vite individuali e sono sempre queste ultime a prevalere. Non c’è una prospettiva eroica, ma quotidiana.
La prima data utile che aiuta i lettori a orientarsi nel grande marasma storico è quella della prima smarginatura di Lila, la notte di Capodanno del 1958. E poi, insieme ad altre date nascoste qua e là nel testo, quella del terremoto dell’Irpinia. Novembre 1980.
Per la prima volta Grandi Fatti e vite individuali entrano in collisione. Anzi, sembra che da un certo punto in poi l’evento storico in sé, il terremoto che è ancora impresso nella mente e nei ricordi dei più grandi, lasci via via spazio al malessere di Lila, e in qualche modo lo giustifichi, lo aiuti a venir fuori investendo non più solo se stessa, ma anche cose e persone.
Per Donnarumma, Lila è il personaggio antimelodrammatico per eccellenza, condannata a vivere la smarginatura che per il professore è un aggiornamento dell’epifania in senso disforico e psicotico. Che il mondo si sfarini precipitando verso l’inarticolato è il terrore più grande che l’ha accompagnata quella notte del 1958 e durante il lungo racconto a San Giovanni a Teduccio. E Lila, come Sharazade, affida a Lena l’intimità di questi suoi lunghi flussi di coscienza dove, accanto alla frasi sovreccitate, in stato quasi febbrile, sembra accedere per brevissimi istanti a un’altra realtà, oltre il fenomenico, il tattile, il riconoscibile.
Lila squarcia il velo di Maya e tutto il mondo è come un vasto inospitale in cui le forme che per convenzione ci siamo dati non reggono più.
Non solo è capace di entrare nel noumeno, ma sa anche dargli un nome e quindi riconoscerlo. «Usò proprio smarginare», leggiamo nel testo. Infatti, se Elena scrive i libri ed è sua l’arte di combinare le parole affinché acquisiscano un senso, è Lila a possedere il genio della scrittura e disfarsene senza rammarico. Questo, almeno, è quello che traspare dalle parole di Lenù.
Dato che il tormento dello scrivere è una costante in tutta la tetralogia, qualche attimo prima dello scoppio del terremoto Lenù dice, rivolgendosi ai lettori:
«Sbaglio, mi dissi confusamente, a scrivere come ho fatto finora, registrando tutto quello che so. Dovrei scrivere come lei parla, lasciare voragini, costruire ponti e non finirli, costringere il lettore a fissare la corrente»
Secondo Tiziana de Rogatis, come scrive in Elena Ferrante. Parole chiave, Elena aveva già vissuto l’esperienza della smarginatura durante la prima infanzia quando, a seguito della perdita delle bambole e dopo l’incontro con don Achille, era stata attraversata da un senso diffuso di malessere accompagnato a una disfunzione tattile che però era stata incapace di inquadrare.
Se Ferrante, per parlare come Lila, ha dato grande prova di scrittura nei lunghi monologhi che seguono queste sue epifanie, anche Elena aveva cercato di parlare della smarginatura, senza mai però nominarla, ai lettori.
Faccio riferimento a una delle pagine più belle di tutta la saga. Nella lunga notte ai Maronti, infatti, mentre Lila e Nino avvinghiati distruggevano il talamo coniugale, Elena sedeva sulla sabbia fredda guardando il cielo buio, sempre più assorta, sola, sprofondata nella propria inevitabile infelicità.
In quel momento, proprio come Lila durante il terremoto, Elena si era resa conto di essere la particella infinitesimale attraverso cui lo spavento di ogni cosa prende coscienza di sé, e aveva chiosato:
«Lila ha ragione, la bellezza delle cose è un trucco, il cielo è il trono della paura; sono viva, adesso, qui a dieci passi dall’acqua , e questo non è affatto bello, è terrificante. [...] Ah,è vero, ho troppa paura e perciò mi auguro che tutto finisca presto, che le figure degli incubi mi mangino l’anima. [...] Sì sì, che io sia punita per la mia inadeguatezza, che mi accada il peggio, qualcosa di così devastante da impedirmi di far fronte a stanotte, a domani, alle ore e ai giorni che verranno ribadendomi con prove sempre più schiaccianti la mia costituzione inadatta».