Nell’introduzione del libro Il sessismo nella lingua italiana, scritto dalla linguista Alma Sabatini con lo scopo di analizzare il linguaggio patriarcale utilizzato dalla stampa italiana degli anni Ottanta in riferimento a vicende che hanno come protagoniste delle donne, il linguista e filologo Francesco Sabatini scrive che la lingua è un binario su cui «viaggia» il pensiero.
La lingua «non è il riflesso diretto dei fatti reali», continua F. Sabatini, ma esprime una visione di quei fatti e, se usata in certe forme, condiziona tale visione.
F. Bacone l’aveva già dedotto nel Novum Organum, e i linguisti americani E. Sapir e B. L. Whorf nella prima metà del Novecento hanno contribuito all’espansione di questo pensiero con le loro ricerche.
La lingua, secondo l’ipotesi Sapir-Whorf, non è neutra, non rappresenta intrinseci principi di verità, ma racchiude le opinioni e le visioni del mondo dei parlanti che ne fanno uso.
In quest’ottica è dunque è sbagliato supporre che l’utilizzo del maschile generico italiano in riferimento al lessico del lavoro sia da ricollegare alla necessità di rendere la lingua imparziale.
L’utilizzo di “avvocata” al posto di “avvocato” è raro nella lingua italiana, ma non è altrettanto raro l’utilizzo di “maestra” al posto di “maestro”.
Questo non perché “maestra” sia più comune di “avvocata”, ma perché il linguaggio contemporaneo non si è distaccato, così come non si è distaccata la società, da visioni stereotipate delle donne.
In italiano qualsiasi sostantivo maschile può rappresentare o soltanto il maschile o entrambi i sessi. Per esempio, “gli italiani” possono essere sia “gli uomini” italiani che “le donne e gli uomini italiani”.
In linguistica questo fenomeno si chiama “disimmetria grammaticale” per indicare le disparità di trattamento riservato agli uomini e alle donne nelle forme grammaticali.
Il principio androcentrico della lingua
Alma Sabatini a tal proposito scrive che la lingua si basa su un principio androcentrico, in quanto l’uomo «è il parametro attorno a cui ruota e si organizza l’universo».
La donna vive nella costante ricerca - e nel cosante bisogno - di affermarsi nel mondo. L’uomo, invece, non ha bisogno di quest’affermazione.
La filosofa Simone de Beauvoir nel libro Il Secondo Sesso infatti scrive: «La donna si determina e si differenza in relazione all'uomo, non l'uomo in relazione a lei; è l'inessenziale di fronte all'essenziale. Egli è il Soggetto, l'Assoluto: lei è l’Altro».
C’è una connessione intrinseca tra società e lingua. Perché la società influenza la lingua, ma, allo stesso modo, un utilizzo più consapevole della lingua, che non tralasci le dinamiche patriarcali alla sua base, può contribuire ad apportare cambiamenti significativi nella società.
Per la lessicologa americana Alma Graham, in un gruppo linguistico “A”, i cui membri siano divisi nei sottogruppi “A” e “B”, non ci sono dubbi che «il sottogruppo A sia quello migliore, superiore, il gruppo di norma, e che “B” sia quello inferiore, il non esistente».
Il mito della neutralità del maschile non riguarda comunque soltanto la lingua italiana, ma la cultura in generale, in quanto alla base della stessa c’è comunque l’impatto di un patriarcato ancora dominante come sistema di potere.
«L’uomo come animale dotato di linguaggio, come animale razionale, ha sempre rappresentato il solo soggetto possibile del discorso, l’unico soggetto possibile», scrive Luce Irigaray nel saggio Parlare non è mai neutro.
L’utilizzo del maschile generico ha un impatto significativo sulla vita delle donne, che secondo delle ricerche effettuate negli Stati Uniti avrebbero comunque più difficoltà dei maschi ad identificarsi con pronomi maschili.
Ciò accade perché i maschi crescono assimilando un linguaggio importato sul genere maschile come fenomeno “naturale”, mentre invece le ragazze hanno bisogno di apprenderlo “artificialmente”.
Genere e lingua non vanno confusi?
Alma Sabatini continua spiegando che grammatici e linguisti di varie lingue obiettano che «il genere grammaticale ed il sesso non vanno assolutamente confusi» in quanto si tratterebbe di fenomeni del tutto separati.
Questo ragionamento, però, continua, «può essere vero quando si tratta di oggetti inanimati».
Non può esserlo, invece, quando si analizzano delle dinamiche culturali e sociali, che hanno un impatto sul linguaggio utilizzato dai parlanti di una determinata lingua nel quotidiano.
Ritenere l’uso del maschile neutro come una struttura invalicabile, in quanto “naturale”, qualcosa a cui si è ormai troppo “abituati” per poterla sradicare, è parte del problema. Perché, spiega la filosofa Julitet Mitchell nel libro La condizione della donna, il patriarcato «si mantiene come sistema di potere perché è così ben trincerato che non ha quasi bisogno di mostrarsi e proclama la sua irrevocabilità facendo appello al naturale».
Nella lingua il maschile è parametro da cui si forma il femminile. Il femminile è quasi un’eccezione.
La lingua oggi
Nella stampa, per esempio, quando si parla di personalità politiche è ancora molto diffuso riferirsi agli uomini con il cognome (Conte, Salvini, Renzi) o con il nome e il cognome (Giuseppe Conte, Matteo Salvini, Matteo Renzi) e alle donne soltanto con il nome (Elly, Giorgia) o con l’articolo prima del cognome (la Schlein, la Meloni).
Qui c’è l’esempio di un articolo pubblicato il 27 febbraio 2024 sul sito di Tgcom24 in cui nel titolo ci si riferisce a Giuseppe Conte come “Conte” e ad Elly Schlein come “la Schlein”.
Nella lingua italiana ci sono anche dei modi di dire che racchiudono immagini sessiste, come «donna al volante pericolo costante». E non manca l’utilizzo della sineddoche, una figura retorica che, secondo la definizione di Treccani, risulta «da un processo psichico e linguistico attraverso cui, dopo avere mentalmente associato due realtà differenti ma dipendenti o contigue logicamente o fisicamente, si sostituisce la denominazione dell’una a quella dell’altra».
La rappresentazione delle donne nel linguaggio è spesso legata a stereotipi e luoghi comuni. Frasi come «mi piace la donna bionda» oppure «la donna mediterranea ha un carattere più fumantino» racchiudono un’immagine della donna legata ad una categoria di pensiero fissa, determinata già in partenza da un’immagine che non è reale e tangibile, ma riconducibile alla cultura patriarcale a cui fa riferimento.
Un altro esempio da prendere in considerazione è l’identificazione della donna attraverso la figura di un uomo, che può essere il padre, il fratello o il partner. È tipico leggere online espressioni come “la fidanzata di” o “la figlia di”.
Il titolo di un articolo pubblicato di recente sul sito della Gazzetta dello Sport, infatti, è: «Chi è Giulia Editto? La fidanzata di Dargen D’Amico, in gara a Sanremo 2024».
Il patriarcato nel racconto dei femminicidi
Il patriarcato nel linguaggio oggi si evidenzia soprattutto nel racconto dei femminicidi.
Molto spesso, infatti, si tende a ricondurre il femminicidio ad un raptus di gelosia o ad un "amore malato”.
In quest’ottica si descrivere il femminicida come un mostro, il protagonista di una tragedia che non appartiene al mondo reale, distaccandolo completamente dalla società in cui vive, quasi come se vivesse “al di fuori” delle sue dinamiche, quando in realtà, scrive la criminologa femminista Diana H. Russell , «il concetto di femmicidio si estende al di là della definizione giuridica di assassinio e include quelle situazioni in cui la morte della donna rappresenta l'esito/la conseguenza di atteggiamenti o pratiche sociali misogine».
Se il patriarcato non ci fosse, e non avesse un impatto sul nostro linguaggio, non ci sarebbe neanche il bisogno di spiegare perché sia gusto utilizzare il termine “femminicidio” e non il più generico “omicidio”.
In Italia questo sembra essere un dibattito ancora aperto, ma è giusto usare il termine “femminicidio” in quanto, come sostiene l’antropologa Marcela Lagarde, il femminicidio è «la forma estrema della violenza di genere contro le donne attraverso varie condotte misogine» - come i maltrattamenti, la violenza fisica, psicologica, sessuale, educativa, sul lavoro, economica, patrimoniale, familiare, comunitaria, istituzionale - che, ponendo la donna in una condizione indifesa e di rischio, «possono culminare con l'uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa».
Il patriarcato esiste da millenni, ma si afferma in modi diversi in base al tempo in cui si presenta come sistema di potere.
La lingua è un campo in cui continua ad inserirsi con molta facilità, perché cambiare la lingua significa in qualche modo cambiare anche la nostra cultura. Ma una cultura ancora legata a dinamiche patriarcali faticherà a cambiare, se non cambia il sistema su cui si regge.
L'italiano è pieno di trappole che evidenziano la presenza del sessismo nella nostra cultura e nel nostro comportamento. Ne hai fatto un ottimo elenco essenziale.
Occorrerebbe che tutte le redazioni di giornali, talk show e tg avessero delle regole di base sulla comunicazione per iniziare a smontare queste trappole una per una, e consentire che il linguaggio agevoli presto la transizione verso una convivenza più civile.
Inevitabilmente questi cambiamenti trovano oppositori che si trincerano dietro i soliti termini, woke, radical chic (tutta roba che se non gliela inventavano gli americani che facevano ?). Deve esserci un impegno costante per erodere il loro ottuso legarsi a tradizioni nocive e superate.
sempre molto interessante, leggerti. Grazie!