Il valore intellettuale di Michela Murgia
Ogni epoca ha diverse espressioni culturali e lei si inserisce perfettamente in quelle del nostro tempo.
In filosofia, la poiesis è l’arte di creare qualcosa dal nulla, una creazione poetica, ma anche un processo che si verifica nel momento in cui la realtà che ci circonda viene plasmata dal pensiero, o dalla formazione di nuovi pensieri intorno a essa.
Nelle sue lezioni americane del 1985, Italo Calvino include tra i valori da «salvare» nella letteratura contemporanea la visibilità, ovvero «il potere di mettere a fuoco visioni a occhi chiusi, di far scaturire i colori e forme dall’allineamento di caratteri alfabetici neri su una pagina bianca, di pensare per immagini».
Michela Murgia mi è sempre piaciuta perché possiede questa caratteristica. Attraverso la sua chiarezza espositiva, che definirei a tratti disarmante, ci aiuta a pensare per immagini.
Nel libro postumo Dare la vita, ci presenta dei fatti concreti, e da questi fatti non si può scappare. Non perché non possa esserci, nel lettore, la volontà di ignorarli. Ma perché nella sua scrittura - e dalla sua scrittura - scappare non è una possibilità.
Michela Murgia potrebbe - e dovrebbe - essere letta da tutt, perché riesce ad arrivare a tutt con la potenza espositiva tipica di chi sente l’urgenza di comunicare che fuori c’è un mondo, e che in quel mondo ci sono delle verità che meritano di risultare visibili.
Michela Murgia crea delle immagini, e poi le tramuta in parole, interpretando la realtà senza mai lasciarci pensare che sia frutto della sua immaginazione: le cose attorno a noi hanno una forma, chiara, e lei ce lo mostra.
In casi come questo, la parola scritta, spiega la professoressa di letterature comparate Elisabetta Abignente in La letteratura e le altre arti, ci aiuta a pensare visivamente perché funge da «ponte» tra due visioni: quella dell’autore, a partire dalla quale «l’opera ha preso forma», e il «cinema mentale del lettore» che si configura a sua volta nell’atto della lettura.
Dare la vita è un libro il cui punto di forza è la naturalezza —che non è banalità — con cui arriva al lettore.
Nel capitolo Queer e ora, Murgia scrive che la queerness è la scelta di «abitare sulla soglia delle identità», accettando di «esprimere di volta in volta quella che si desidera e che promette di condurre alla più autentica felicità razionale».
Queer, spiega, non è una parola comoda per nessuno. E non lo è per un fatto semplice: nominare significa escludere, ma l’esigenza di nominare, al contempo, nasce per il bisogno di affermare un’esistenza, renderla tangibile.
L’esperienza queer «ci insegna che il problema è proprio la normalità in sé, e che nulla in realtà si definisce del tutto in termini binari di qua o di là rispetto a un confine invalicabile come un muretto a secco», conclude infatti l’autrice.
Spesso il valore intellettuale di Michela Murgia è stato messo in discussione, ma chi è l’intellettuale, se non qualcuno che, attraverso le sue idee, ci aiuta a riflettere sulla realtà che ci circonda?
Michela Murgia lo fa, e questa è la ragione per cui la considero un’intellettuale contemporanea che andrebbe inserita nei programmi di letteratura delle università, a prescindere dal fatto che si condividano o meno tutte le idee che esprime.
Ogni epoca ha diverse espressioni culturali e lei si inserisce perfettamente in quelle del nostro tempo.
I queer studies, oltretutto, nascono proprio dall’esigenza di rileggere la realtà, una realtà in cui ci sono le norme, i canoni e le gerarchie su cui è stata fondata - e su cui poi si è consolidata - la cultura nel tempo.
Come direbbe Raymond Williams, uno dei massimi esponenti dei cultural studies, la cultura è «uno stato evoluto della mente» e una «persona di cultura» è una persona che si può riconoscere come espressione di un complesso di valori o modi di vivere riconosciuti da un «gruppo specifico».