Imbrogliar(si)
L’AMICA GENIALE 4 - La queerness di Alfonso, la nascita di Imma e Tina, la morte di Immacolata e i tradimenti di Nino negli episodi 5 e 6
Buongiorno,
Oggi io e Francesca Perricci commentiamo gli episodi 5 e 6 de L’amica geniale 4 — Storia della bambina perduta, andati in onda ieri su Rai1.
Sono due episodi molto significativi, in cui conosciamo meglio il personaggio di Alfonso, la vera natura di Nino, la gravidanza di Lila e la profondità del personaggio di Immacolata, la mamma di Lenù.
Francesca si è dedicata al quinto e io al sesto.
Buona lettura
Anna
Episodio 5 — Rottura
Il terremoto del 1980 aveva fissato la paura più grande di Lila, quella di perdere i contorni e diventare niente, investendo le cose e le persone a lei più care. Se, però, in Lena il terrore non riusciva a mettere radici, non riusciva cioè a coagularsi attorno a forme concrete e a prendere così troppo spazio fino a strabordare, l’ultimo mese della sua gravidanza aveva fatto emergere comunque un’altra se stessa, l’ombra claudicante e scontenta come un temporale che da sempre, da quando era piccola e correva dietro alla figura ferma di Lila, la seguiva e la stringeva come un malessere senza sbocco.
Temeva, con l’appesantirsi del corpo sotto il peso di due vite - la sua e quella della bambina -, di rimanere risucchiata dal posto in cui era nata, la distanza tra il rione e Via Tasso (Via Petrarca nella serie) si era ulteriormente diminuita tant’è che, scrive Lenù, «ebbi l’impressione che i guasti di Napoli si fossero insediati anche nel mio corpo, che stessi perdendo la capacità di risultare simpatica e accattivante».
L’unica cosa a beneficiare della gravidanza è il rapporto tra le due amiche, coinvolte ancora una volta in un gioco corroborante che è noto soltanto a loro. Ma entrambe vivono la gravidanza come un ossimoro: Elena accoglie con piacevole arrendevolezza la nuova vita che la investe, Lila sembra resisterle con la solita malata ostinazione.
A metà episodio assistiamo a quella che Alba Rohrwacher ha definito come una delle scene più forti e significative da girare, nonché la rappresentazione tangibile della tenerezza e della solitudine di Lenù. Mi riferisco al momento in cui, svegliata dall’incubo del terremoto che attanaglia ancora i suoi sogni, girovaga nel bell’appartamento svuotato dall’assenza Nino e guida sola fino all’ospedale canticchiando Dicitencello vuie di Mario Abbate.
Nino, ormai si sa, semina distratto figli qua e là stordito dal coito, desideroso di piacere ai potenti, soprattutto alle donne, e rimanere ondivago.
Come approfondiremo nei prossimi episodi, Elena inizia a tollerare sempre più di malavoglia questo suo passare da un’idea all’altra senza soluzione di continuità, come se qualcosa avesse iniziato a guastarsi nella sua testa. Allora si chiede e ci chiede, possibile che Nino sia sempre stato lo stesso? L’uomo del presente cos’ha in comune col bambino nutrito di sogni infantili, cresciuto anche lui nel rione?
A questo proposito, ci terrei a riportare nuovamente le riflessioni del professor Raffaele Donnarumma che ho già citato negli scritti precedenti. Secondo il professore, l’entropia della quadrilogia napoletana non risiederebbe soltanto nel concetto che sotto ogni forma la sostanza rimanga la stessa, ma anche nelle agnizioni e nel cosiddetto, abusato, “eterno ritorno”.
Detto in modo più semplice, l’amore di Nino resiste alle intemperie del matrimonio e della casa di Firenze perché viene “da dentro”, dal rione, dalla matrice alla quale tutto e tutti ritornano, mentre Pietro “viene da fuori” e non può durare, non può mettere radici.
Sul tema delle agnizioni, invece, basterebbe dire che una prima scintilla di rivelazione balza su quando Nino, controcorrente ai suoi pensieri di uomo ateo, decide di voler battezzare Imma non per vocazione, ma solo perché «i bambini si battezzano».
Premonitoria la frase in chiusura di capitolo che Elena, di nuovo, rivolge ai lettori. Si chiede in quel momento se il padre della sua terza figlia sia sempre lo stesso, se esista insomma una qualche continuità tra il Nino bambino e quello di ora o se lei, da donna annebbiata dall’amore, gli stia cucendo addosso, con ostinazione, una fisionomia chiara e definitiva?
Gli squarci del terremoto investono le persone, e la breccia dentro Nino non può più essere ignorata.
Quando Lila, forte anche della vita che le batte dentro, accompagna Immacolata, sempre più piccola e prossima a inabissarsi, nella casa di Via Tasso per conoscere la nipotina, Lena ritorna la ragazzina dei tempi di Ischia, quella che vedeva Nino e Lila come due divinità cadute intrappolate in un gioco stupido.
Sarà forse vero, come dice Lila, che allora ognuno si racconta la realtà come fa comodo? E le bugie, ammesso che siano resistenti, sono veramente meglio dei tranquillanti?
Ep. 6 — Tradimento
Il sesto episodio de L’amica geniale 4, Tradimento, inizia con Lenù che allatta Imma, appena nata. E subito dopo corre dalla madre in ospedale, lasciando la figlia all’unica persona di cui si fida davvero: Lila.
È Alfonso ad accompagnarla, in macchina, mentre si lascia andare ad una confessione sulla sua reale identità: «Il più imbrogliato ero io, imbrogliato da me stesso», racconta infatti a Lenù.
Lila l’ha aiutato nel suo percorso di affermazione, imponendogli chiarezza. Infatti, Alfonso aggiunge: «[Lila mi ha fatto capire che] Se tocco il piede di quella donna, non sento niente, mentre muoio dal desiderio di sfiorare il piede di quell’uomo lì».
Alfonso rappresenta la queerness, un concetto analizzato dalla filosofa femminista Judith Butler e dalla scrittrice femminista Michela Murgia.
Per Butler, "queerness" non è solo un'etichetta identitaria, ma una modalità di resistenza alle norme che governano il genere e la sessualità. Queerness sfida i confini rigidi imposti dalle categorie binarie come maschio/femmina o eterosessuale/omosessuale, che sono considerate costrutti sociali e culturali, non dati naturali.
Un concetto a cui si lega la queerness è quello della performatività del genere. Secondo la filosofa, infatti, il genere non è qualcosa che possediamo o che siamo, ma qualcosa che "facciamo" attraverso una serie di atti, gesti e discorsi ripetuti. Questo significa che il genere non è innato o biologico, ma un costrutto culturale continuamente ricreato.
In Gender Trouble, Butler scrive:
«Il genere non sta alla cultura come il sesso sta alla natura; il genere è anche il mezzo discorsivo/culturale con cui la «natura sessuata» o «un sesso naturale» vengono prodotti e fissati in quanto «pre-discorsivi», precedenti la cultura, una superficie politicamente neutrale su cui agisce la cultura».
Alfonso sfida i costrutti sociali legati al genere sin dall’infanzia, tant’è che, riprendendo la scena nel primo libro della tetralogia in cui Lila e Lenù si recano a casa di suo padre, don Achille, alla ricerca delle loro bambole scomparse nel nulla, racconta a Lenù le prese in giro subite nell’infanzia dalla sua famiglia perché indossava le collane della madre e giocava «da femmina».
A proposito di queerness, in Dare la vita Michela Murgia scrive:
«La queerness è la scelta di abitare sulla soglia delle identità (intesa come maschera di rivelazione di sé), accettando di esprimere di volta in volta quella che si desidera e che promette di condurre alla più autentica felicità razionale».
Michela Murgia aggiunge che l’esperienza queer — e questo messaggio si adatta perfettamente al percorso del personaggio di Alfonso — ci insegna una cosa:
«Il problema di fondo è proprio la normalità in sé, e nulla in realtà si definisce in termini binari di quà o di là rispetto a un confine invalicabile come un muretto a secco».
Nella scena successiva, Lila partorisce la figlia Tina. È un parto doloroso, di urla, di sofferenza, che nel romanzo è riassunto così:
«Le doglie diventarono subito violentissime ma non risolutive, il travagliò durò sedici ore. La sintesi che Lila ne fece fu quasi divertita. Non è vero, disse, che si patisce solo per il primo figlio e che in seguito è tutto più facile, si patisce sempre. Le sembrava insensato quel custodire il figlio e, insieme, volerlo espellere. È ridicolo, disse, che questa ospitalità di nove mesi si accompagni alla smania di buttar fuori l’ospite nel modo più violento».
La sofferenza accompagna tutto l’episodio. Si percepisce, infatti, anche nella stanza d’ospedale in cui è ricoverata Immacolata, nella scena successiva, mentre rimprovera i figli che non sembrano voler cambiare strada e continuare a seguire il camorrista Marcello Solara.
Immacolata muore poco dopo con Lenù accanto, che le tiene la mano. Un addio, il loro, dopo una vicinanza ritrovata.
Prima di entrare in coma, Immacolata pronuncia a Lenù queste parole, che le mostrano una fiducia mai persa: «Tu sei tu e hai sempre saputo mettere le cose a posto come piaceva a te, e perciò mi fido».
E in una stanza buia, Lenù la saluta per sempre:
«Di colpo la stanza diventò silenziosa. Poi la lingua di Immacolata schioccò e il silenzio si ruppe. Lasciai la sedia, mi avvicinai al letto. Noi due — io e la piccola — eravamo, dentro quello spazio di malattia, tutto ciò che di vivo e di vero rimaneva ancora in lei».
Alla fine di quest’episodio, anche Nino Sarratore si rivela l’uomo che Immacolata aveva sempre immaginato: un inaffidabile traditore seriale che non soltanto ha cercato altre donne, ma ha cercato di riavvicinarsi sentimentalmente anche a Lila.
Nino non è mai stato diverso da suo padre Donato. Ora che Lenù l’ha sorpreso in un rapporto sessuale con la babysitter Silvana, l’ha capito:
«Nino era ciò che non avrebbe voluto essere e che tuttavia era sempre stato. Quando sbatteva ritmicamente contro le natiche di Silvana non mentiva, esattamente come non mentiva quando mi faceva un torto e intanto di rammaricava. Lui è così, mi dissi. Ma questo non mi consolò. Sentii anzi che l’orrore, invece di sbiadire, trovava un più solido rifugio nella constatazione».