Il pezzo che pubblico oggi è stato scritto in collaborazione con la scrittrice Enrica Nicoli Aldini, autrice della newsletter Anche una donna qui, ed è parte di un progetto da lei ideato sulla parità di genere in Italia.
Buona lettura.
Enrica Nicoli Aldini è nata a Bologna nel 1989, vive e lavora negli Stati Uniti dal 2015. Dopo la scuola di giornalismo a Chicago ed esperienze da cronista su temi di politica e giustizia sociale negli Stati Uniti, è approdata a Google News, dove si è occupata di strategia del prodotto e cura dei contenuti per l’Italia per oltre sei anni. Dal 2023 scrive a tempo pieno come freelance.
Italia e patriarcato. Tappa napoletana.
La vecchia Fiat modello anni Novanta accosta al primo rientro utile della strada, di fronte a un negozio di ferramenta a qualche metro dalla fermata dell’autobus dove le due giovani donne erano state avvistate.
L’uomo all’interno del veicolo, una sessantina d’anni, non le conosce, ma si allunga per aprire la portiera dal lato del passeggero aspettando che lo raggiungano.
Le due donne siamo noi, le autrici di questo articolo. Ci trovavamo a Casoria, nella prima periferia di Napoli, nel luogo in cui quotidianamente una di noi due subisce molestie di strada da parte di uomini che passano in macchina.
Conosciuti con il prestito inglese catcalling, si tratta di comportamenti maschili a volte subdoli, come occhiate indesiderate e cenni suggestivi del capo; a volte più espliciti, come fischi maliziosi, complimenti non sollecitati e richieste di natura sessuale.
Ci era bastato posizionarci a quella fermata dell’autobus per attirare immediatamente delle attenzioni non desiderate.
Nonostante il forte disagio, ci siamo avvicinate alla macchina del sessantenne con la portiera aperta, con l’intenzione di intervistarlo sulla mentalità che spinge lui e altri uomini a ritenere opportuno accostare e aprire la portiera della macchina, dando per scontato che due donne in attesa dell’autobus desiderino salire.
Era la tappa napoletana di un viaggio attraverso l’Italia ideato e condotto da Enrica Nicoli Aldini, scrittrice bolognese espatriata negli Stati Uniti, per intervistare italiani da Nord a Sud su temi attuali come femminicidio, stupro, aborto, linguaggio inclusivo, quote rosa e concetti come patriarcato, sessismo, misoginia.
Enrica ha intavolato conversazioni con più di centocinquanta persone, uomini, donne, giovani, per la strada, nei bar, nei parchi, nei ristoranti, fuori dalle scuole, per tratteggiare un’immagine della coscienza degli italiani sulla parità di genere e cercare spiragli «umani» a cui aggrapparci per garantire la piena libertà e dignità della donna nel nostro paese partendo dal basso, dalle parole, dai gesti, dalle scelte quotidiane di ogni singolo cittadino.
La tappa campana è avvenuta in collaborazione con Anna Menale, giornalista napoletana che si occupa di femminismi. Abbiamo intervistato venticinque persone: quindici uomini, otto donne e due ragazzi adolescenti. È un numero che di certo non ha valore statistico, ma offre interessanti spunti di riflessione ed è un assaggio dell’inchiesta complessiva. Le venticinque voci che abbiamo raccolto a Napoli esprimono infatti pensieri comuni al resto dell’Italia.
Innanzitutto, la maniera in cui le persone che abbiamo intervistato ragionano sulle questioni di genere è influenzata da forti stereotipi. È ancora molto diffusa l’idea che esistano caratteristiche universali che definiscono la donna rispetto all’uomo: grazie a un innato senso materno di protezione e a un maggiore interesse nell’aiutare gli altri, le donne avrebbero «una marcia in più»; gli uomini, invece, possiedono certi istinti che, in casi estremi, sfociano in forme di violenza.
Inoltre, tutti i nostri intervistati condannano derive violente come stupro e femminicidio, ma sembrano fermarsi alle parole. Nessuno, soprattutto nessun uomo, ritiene di poter fare qualcosa per contribuire al cambiamento di una società in cui le donne subiscono forme di oppressione in quanto donne. Nessuno si sente coinvolto. Nessuno ritiene che sia necessario mobilitarsi collettivamente, perché per tutti la violenza che può scaturire da presunti istinti maschili è dovuta a forme di infermità mentale limitate a certi individui “mostri”, invece che a una più generalizzata cultura che, per dirla come Gino Cecchettin al funerale della figlia Giulia, vittima di femminicidio, «svaluta la vita delle donne». Nessuno si sente responsabile di questa cultura, né si rende conto che tante piccole azioni quotidiane portano con sé una componente di svalutazione e discriminazione della donna.
Il tratto più interessante della nostra inchiesta, infatti, è emerso proprio dall'esperienza di piccole azioni quotidiane. Nei momenti in cui il nostro registratore era spento nella tasca della giacca, mentre nessuno attorno a noi sapeva che fossimo giornaliste in cerca di interviste sui temi della parità di genere – magari stavamo prendendo un caffè al bar o, appunto, aspettavamo l’autobus – siamo state vittime di catcalling o battute di natura sessuale.
Di fronte a due giornaliste con in mano un registratore, tutti si sono chiamati fuori e hanno attribuito la responsabilità a un generico «altro». Ma quando abbiamo smesso i panni delle croniste e siamo state “soltanto” donne, spesso sono arrivate le battute e il catcalling.
Allora ci chiediamo: perché non è mai responsabile nessuno, però succede sempre?
Sensibilità superiore e istinti incontrollabili
«Qui dentro la donna ha una cosa in più». Francesco ha 68 anni, è un ex ufficiale di Marina e si tamburella il dito in testa per indicare l’organo che secondo lui rende la donna «più superiore all’uomo». «L’uomo vicino alla donna è più fesso», continua.
Parliamo con Francesco per una ventina di minuti, nei pressi della stazione centrale in Piazza Garibaldi. La confidenza è pressoché immediata: ci racconta di aver subito un tradimento da parte dell’ex moglie. Lo fa quasi di riflesso, come a voler suggerire che non sono solo gli uomini a mancare di rispetto alle donne: «Una donna non può picchiare un uomo? Perché solo l’uomo deve picchiare la donna?», ci chiede con un sorriso, aggiungendosi alla lunga lista di uomini che hanno risposto alle nostre domande sulle forme di oppressione che affliggono le donne italiane ribattendo che “anche l’uomo può essere vittima”.
Agli uomini che invece sono carnefici, Francesco direbbe che fanno «schifo»: «Mi dà fastidio che l’uomo deve stuprare una donna. Mi danno fastidio le mani addosso». Con i suoi amici, però, di questi argomenti non ne parla: «Però noi rispettiamo la donna», ci garantisce. Fa l’esempio di un amico che chiede alla moglie il permesso di tornare a casa a mangiare – invece di dare per scontato che troverà il piatto pronto in tavola – perché è lei che comanda in famiglia.
Anche Salvatore, 41 anni, a passeggio in Piazza Garibaldi con la cagnolina Sofia, ritiene che le donne abbiano «un potenziale in più agli [sic] uomini, perché secondo me amministrano meglio e sono molto più capaci. [...] Hanno una marcia in più e dovrebbero essere più prese in considerazione».
Come prova del suo rispetto nei confronti delle donne, Salvatore ci spiega di aver scelto una donna «come consulente bancario» (usa il maschile) perché le donne «hanno più disponibilità, più interesse nell’aiutarci» mentre gli uomini, continua Salvatore dimostrando essenzialmente la propria tesi, «pensano sempre agli interessi propri».
Nel suo libro Ne uccide più la lingua, la scrittrice e attivista femminista Valeria Fonte descrive luoghi comuni come «la donna ha una marcia in più» oppure «per certe cose ci vuole il tocco di una donna» o «è mia moglie che comanda in casa» come forme di «sessismo benevolo» che presumono una «illusoria superiorità femminile, per cui il maschio è al servizio della femmina».
Mascherate in superficie come complimenti e profonde manifestazioni di rispetto, frasi fatte e concessioni di questo tipo celano nel profondo la convinzione che le donne avrebbero «bisogno di attenzioni speciali perché considerate socialmente svantaggiate».
Sono anche artifici retorici privi di significato e impatto reale sulla vita delle donne: «Senti, io nel mio quotidiano non ti dico che posso dare una grande parte di contributo per risollevare il mondo femminile», ha ammesso Salvatore, «però comunque qualsiasi persona mi domandi, io sono sempre a favore delle donne».
Dichiarare di essere «a favore delle donne» senza dare «una parte di contributo» è intonare slogan senza agire di conseguenza.
Il problema è che quando dice di non poter dare un contributo, Salvatore ci sta dicendo che, innanzitutto, lui non saprebbe proprio come agire: «Dammi un consiglio, lo faccio», è l’invito che ha rivolto a una di noi. Ci sta anche dicendo, in maniera implicita, che non ritiene neanche che sia compito suo.
L’utilizzo della terza persona è indicativo, come se Salvatore si stesse sottraendo a questa responsabilità: «Ci vuole un po’ di tempo, perché il maschio è maschio», ha risposto quando gli abbiamo fatto notare la discrepanza tra l’immagine della donna «superiore» e «con le marce in più» e la posizione di inferiorità nella quale viene comunque relegata in società.
Cosa significa che «il maschio è maschio»? Giuseppe, 18 anni, offre il suo punto di vista: «La mente degli uomini è un po’ malata», ci ha detto, aggiungendo che «è più selvaggia, è più istintiva la mentalità del ragazzo». Lui stesso, quando esce in comitiva con gli amici e vede una bella ragazza, ogni tanto «una battutina ce la butta», anche se ci garantisce che non si permetterebbe mai «di fare apprezzamenti di troppo», sottintendendo che alcune battute sul corpo di una donna sono più accettabili di altre.
Giuseppe ci dice che con gli amici non parla spesso di questi argomenti. Quando lo fanno «comunque diciamo che ci dispiace, che sono cose che non si dovrebbero fare». Però se si tratta di intervenire, ad esempio, di fronte a una battuta, Giuseppe ne parla come di «un peso addosso»: «Comunque so che devo andare contro molte persone».
Non è l’unico. Anche Antonio, 22 anni, con cui chiacchieriamo nel cuore del Rione Sanità, preferisce non intromettersi, consapevole del rischio di conflitto che può sorgere con altri maschi: «Io spesso e volentieri mi tengo alla larga perché sono una persona pacifica».
Ci sono degli istinti che l’uomo non saprebbe controllare: sono innati, naturali, parte integrante dell’identità maschile. Ma questa sembra una giustificazione, un modo per dire: è così, è sempre stato così, continuerà a essere così e non possiamo farci niente se le donne subiscono molestie e altre forme di soprusi.
Invece non è così, innanzitutto perché i tratti caratteriali tradizionalmente attribuiti agli uomini di cui Francesco, Salvatore e Giuseppe ci hanno parlato non sono caratteristiche innate, ma espressioni arbitrarie di genere. Come scrive la sociologa Teresa de Lauretis in Soggetti eccentrici, il genere «non è un semplice derivato del sesso anatomico o biologico, ma una costruzione simbolica, l’effetto di innumerevoli rappresentazioni visive e discorsive» che provengono dalla famiglia, dalla scuola, dalle leggi, dalla medicina, ecc. e «dalle forme stesse della cultura».
Pur essendo una costruzione artificiale, il genere ha degli effetti concreti nella vita degli individui: «Il genere si realizza, diviene realtà concreta quando la rappresentazione diviene autorappresentazione, ossia viene assunta dal soggetto quale componente della propria identità», continua de Lauretis.
Sembra essere esattamente ciò che accade nel momento in cui non si considera un uomo che molesta una donna come un essere umano consapevole delle sue azioni, ma una creatura spinta da un istinto più forte della sua coscienza, quasi incontrollabile.
È lo stesso luogo comune che ricorre ampiamente nella narrazione dei femminicidi: quello del «mostro» e del «pazzo», il soggetto che in un raptus di follia perde la ragione e ammazza una donna. Per tutti i nostri intervistati, i femminicidi sono da collegare proprio alle azioni di un mostro cattivo e non a una dimensione sistemica della violenza contro le donne all’interno di una società patriarcale, che implicherebbe l’esistenza di un problema culturale e di una responsabilità collettiva.
«[La responsabilità è] del singolo», ci ha detto Carmine, 57 anni, fuori da un bar di Casoria. «Non possiamo fare un solo fascio perché poi non è che tutti gli uomini sono cattivi».
Ma identificare il femminicida con un «mostro» o un «animale» significa ignorare il campo in cui si consuma la violenza, che è la nostra realtà, non un romanzo o una serie tv. Significa anche deresponsabilizzare il femminicida dal crimine che ha commesso: una persona che agisce in un raptus di rabbia non è pienamente consapevole delle proprie azioni e non può neanche controllarle. La maggior parte non ritiene che la società in cui viviamo si possa definire «patriarcale» perché non riscontra nella realtà uno squilibrio di potere tra i generi.
Ma, come scrive l’antropologa Marcela Lagarde, il femminicidio è «la forma estrema della violenza di genere contro le donne, prodotto dalla violazione dei suoi diritti umani in ambito pubblico e privato attraverso varie condotte misogine [...] che, ponendo la donna in una condizione indifesa e di rischio, possono culminare con l'uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa».
È fondamentale collegare i femminicidi alla dimensione sistemica e strutturale della violenza contro le donne perché, spiega la criminologa femminista Diana H. Russell, «il concetto di femmicidio si estende al di là della definizione giuridica di assassinio e include quelle situazioni in cui la morte della donna rappresenta l'esito/la conseguenza di atteggiamenti o pratiche sociali misogine».
Un altro dato emerso nel corso dell’inchiesta è la tendenza a colpevolizzare Napoli per il fatto di essere «antiquata» e «patriarcale». La maggior parte delle persone intervistate ha dichiarato frasi come: «Eh, ma ‘ccà stamm a Napule!» (cioè: «qui siamo a Napoli»), sottintendendo che il Sud sia più patriarcale rispetto al Nord. Questo non è affatto vero, e ci è dispiaciuto sentirlo, perché il patriarcato non ha connotazioni geografiche: una società patriarcale è patriarcale ovunque.
Poi abbiamo incontrato Lia, 53 anni, con cui si è parlato di interruzione di gravidanza. Lia è contraria all’aborto ma favorevole alla possibilità di scelta individuale soprattutto in certe situazioni: «In caso di stupro ho diritto di scegliere perché non è una cosa che ho voluto io, però nel momento in cui io esco con un ragazzo che mi piace e rimango, mi devo prende le mie responsabilità».
In questo senso, secondo Lia l’aborto non è una scelta che esprime autodeterminazione, quanto più una scelta da poter prendere in un caso estremo, frutto di una mancanza di responsabilità a monte, nella donna che ricerca l’aborto e nella famiglia che l’ha educata: «Penso che una ragazza che non abbia voglia di prendersi le proprie responsabilità con una gravidanza sicuramente sia una ragazza che non è stata molto seguita, a mio avviso, perché forse quella gravidanza si poteva fermare prima, con un genitore che magari ti fa capire le responsabilità che tu ti prendi quando stai con un uomo oltre ai rischi che corri. Perché sei libera di farlo, ma lo devi fare con la testa».
Infine c’è stata Anna, 35 anni, in un centro commerciale di Casoria. Della sua intervista ci ha colpito non solo la franchezza e la chiarezza dello sguardo con cui Anna ha descritto l’esperienza femminile in una società patriarcale afflitta da episodi di violenza contro le donne, ma anche il botta e risposta che si è creato con il compagno Marco, 48 anni.
Mentre Anna dichiarava di auspicare il passaggio di «leggi più giuste per noi donne» perché altrimenti «continueremo a essere uccise e violentate», Marco ascoltava con un’espressione di disagio. «Guarda che anche da parte dell’uomo c’è una solidarietà in tal senso», ha risposto lui, affidandosi allo stesso artificio retorico di Francesco in Piazza Garibaldi: evocare rari episodi di violenza femminile sugli uomini per sminuire la gravità sistematica e strutturale della violenza maschile sulle donne. «Non credere che è solo un fenomeno femminile. Mi sembra [un’idea] un po’ femminista».
«Hai mai sentito di un uomo violentato da un branco di donne? Mai sentito», ha ribattuto Anna. «Io vedo solo donne, morte, violentate». Marco ha sorriso, chiamando la fidanzata «un po’ aggressiva». Anna ha accettato l’aggettivo di buon grado, spiegando però che lei è «aggressiva sulle cose giuste»: «Io voglio essere rispettata. Questo è il nostro intento».
L’interazione tra Anna e Marco colpisce perché esemplifica la dinamica socio-culturale che perpetua l’incidenza della violenza di genere: il rifiuto da parte di uomini a prendersi una responsabilità verso il cambiamento, anche quando è forte il grido della donna al loro fianco nell’illustrare il problema.
Soltanto donne
Durante una pausa dalle interviste, siamo entrate a prendere un caffè in un bar del Rione Sanità. Eravamo «in borghese»: il registratore era spento e non ci siamo presentate come giornaliste, perché non eravamo in cerca di interviste.
I due baristi uomini hanno cominciato a prendersi in giro a vicenda con battute a sfondo sessuale. «Questo qui è nu campione», ha detto il barista più anziano, spiegandoci che il collega più giovane può vantare una grande collezione di partner femminili. Niente, nel contesto in cui ci trovavamo, motivava la condivisione di questo tipo di informazioni con noi. I baristi non sapevano che fossimo giornaliste impegnate sul fronte della parità di genere. C’era solo il nostro essere due donne giovani e sole.
Ci era bastato spegnere il registratore, perché la nostra semplice identità di donne incentivasse gli uomini attorno a noi a indugiare in atteggiamenti che fanno parte di una cultura che per tutti i nostri intervistati non esiste e di cui non è mai responsabile nessuno, ma di cui noi donne facciamo esperienza sempre.
«Ho preso una svista, mi scusi! Pensavo che io la conoscevo!».
Noi non eravamo intenzionate a salire in macchina, e, quando l’ha capito, l’uomo nella vecchia Fiat anni Novanta ha accampato una serie di scuse.
«State pensando una cattiveria», ha risposto quando gli abbiamo chiesto cosa lo avesse spinto ad accostare la macchina e aprire la portiera semplicemente perché aveva adocchiato due donne in piedi alla fermata dell’autobus: «Ma vi ho fatto qualche proposta, ho fatto lo scostumato? Sono nonno io».
La proposta non era avvenuta a parole, ma era implicita nell’atteggiamento, sintomo di una mentalità maschilista tipica di una società patriarcale che normalizza gesti quali accostare l’auto a due passi dal punto in cui due donne stanno aspettando un autobus, dando per scontato che vogliano salire in macchina e siano disposte a concedere i loro corpi al piacere di un uomo. Oppure a perseverare nel chiedere loro il numero di telefono, come ha fatto un altro uomo, Marco, dal finestrino della sua auto: «Con le donne bisogna insistere», ha detto il ragazzo in tutta risposta al nostro no.
Questi comportamenti non sono una prassi: sono molestie. Se iniziamo a chiamare le cose con il loro nome, senza sminuirne la gravità, può cambiare anche la percezione che ne abbiamo.
Come possiamo imparare a chiamare le cose con il loro nome? È stata la conversazione con Cesare, quindici anni, a indicarci una possibile strada e comunicarci un senso di speranza per un futuro migliore, reso possibile dai giovani di oggi.
Cesare (nome di fantasia vista la minore età) è stato l’unico ad ammettere che anche se sulla carta avrebbero gli stessi diritti degli uomini, le donne «vengono viste male». Come esempio ci parla del calcio: «La donna calciatrice, non ci sta problema, però comunque viene sempre visto [meglio] il calciatore».
La semplicità del linguaggio e dell’esempio scelti da Cesare tradisce la profondità di un concetto che le donne vorrebbero vedere riconosciuto e ammesso senza se e senza ma. Fa molto più onore e giustizia all’esperienza femminile in Italia riconoscere che spesso le donne “sono viste male” – nel senso di discriminate, vittima di soprusi, ecc. – che vedersi attribuita una presunta superiorità, senza che sia accompagnata da genuino rispetto della propria libertà e dignità.
Cesare ci ha anche parlato della disparità che osserva nella divisione dei compiti nella gestione della casa e dei figli: «Penso che sia veramente uno schifo, perché così come la donna può lavare la casa, pure l'uomo lo può fare. Per esempio io aiuto mia mamma, così come fa mio padre che cucina quando mia mamma non può».
L’educazione sessuale e affettiva è parte dell’offerta curricolare dell’istituto elettrotecnico che Cesare frequenta. È lui stesso a suggerirla come metodo per rispondere alle discriminazioni di genere: «Possiamo risolvere promuovendo un’educazione attiva dalle elementari all’asilo. Il maestro deve proprio far capire che sono tutti uguali sull’ambito lavorativo e sociale».
Non vogliamo pensare che Cesare sia un’eccezione, anzi, le sue risposte ci regalano un barlume di fiducia nelle nuove generazioni, ma allo stesso tempo ci sono dei dati da considerare: in un’indagine di Ipsos per ActionAid su cosa gli adolescenti italiani pensano sia la violenza, come reagiscono e si difendono, qual è il ruolo degli stereotipi e dei pregiudizi di genere sulla loro vita, è emerso che quattro giovani italiani su cinque ritengono che una donna possa sottrarsi a un rapporto sessuale se davvero non lo vuole, ma uno su cinque crede che le ragazze possano contribuire a prov’violenza sessuale se mostrano un abbigliamento o un comportamento eccessivamente provocante.
Ciò forse indica che l’educazione sessuale e affettiva nelle scuole, nelle famiglie e attraverso tutti i mezzi d’informazione – di cui tanto si parla e che tanto viene criticata – può essere uno strumento utile per superare le dinamiche sociali e culturali da cui partono le discriminazioni di genere che sono ancora preponderanti nella società in cui viviamo.
Perché dall’altra parte c’è qualcuno che vuole ascoltare.
Non vogliamo che la nostra sia soltanto un’intervista. Desideriamo che le testimonianze che abbiamo raccolto, e l’analisi che ne abbiamo fatto, possano offrire spunti di riflessione per riconsiderare certe norme sociali.
Il cambiamento in una società ancora patriarcale, come quella in cui viviamo, non può avvenire senza scardinare la cultura da cui queste norme derivano.
Ottimo articolo, grazie! 🙏