Mai più così
In Italia sono tante, tantissime, le donne che raccontano di essere state umiliate per aver scelto di abortire o dopo aver abortito. Parliamone.
Nel 1974 Emma Bonino ha abortito. E l’ha fatto clandestinamente, perché In Italia abortire è diventato un diritto soltanto 4 anni dopo, con la legge 194/78. Ne ha parlato in un’intervista a Belve che a me è piaciuta molto (e non solo per questo, ma per tutto ciò che ha detto e per il modo in cui si è raccontata).
Le sue parole? «Per nessuna, mai più». E non è difficile comprenderne le ragioni: ha dovuto abortire di notte, nascondendosi da tutto e tutti, e per lei è stata una vera umiliazione.
Da quel momento si è battuta in prima linea per la causa: ha accompagnato donne al Centro d’informazione sulla sterilizzazione e sull’aborto (Cisa) a Firenze, si è persino autodenunciata per averlo fatto, e ha anche praticato con le sue mani degli aborti.
Poi è stata arrestata nel 1975 dopo la pubblicazione di un servizio proprio su questa clinica in cui le donne abortivano in sicurezza. Ma lei definisce quegli anni come «una stagione di grande risveglio civile», ovvero anni «di una presa di coscienza generale, non solo delle donne ma a partire dalle donne, sull'importanza della libertà di scelta e anche sulla questione che, come dire, chi aveva i soldi in qualche modo si arrabattava e chi non ne aveva rischiava anche la salute».
Oggi, nonostante esista la legge 194/78, le esperienze delle donne che abortiscono sono spesso umilianti, come in passato.
A mio avviso alla base c’è una visione che persiste: l’aborto è contro natura. Oggi può essere un’opzione, l’ultima spiaggia in una situazione di estrema necessità, ma sembra essere comunque sbagliato.
Sono tante, tantissime, le donne che raccontano di essere state umiliate per aver scelto di abortire o dopo aver abortito. Mi è bastato fare una breve ricerca su Google per averne conferma.
A maggio Repubblica ha intervistato una ragazza di 22 anni che ha raccontato: «Mi sono sentita dire ‘ti auguro tanti tanti dolori così fai presto e ti sbrighi’. Una ginecologa poi mi ha detto ‘tu non vai a partorire, vai ad abortire’. Mi sono sentita sola».
Manca l’idea che l’aborto possa essere davvero una libera scelta. E soprattutto manca l’idea che possa essere una scelta affrontata in totale serenità.
All’aborto si associano sempre sofferenza e colpa, seguiti da un dolore necessario e universale.
Non esiste alternativa. Ed è su questa visione che si è costruita una narrazione politica - e sociale - di aborto che, più che rispecchiare davvero le esperienze di chi abortisce, le ingabbia in una scatola chiusa da cui non si può uscire, perché, come scrive l’associazione Luca Coscioni, «non si può parlare di aborto se non con toni tetri e pentiti, commentare che a noi per fortuna non è successo, è comunque sempre un trauma, una ferita insanabile».
E, attenzione, qui non sto dicendo che dobbiamo cancellare le testimonianze di donne che hanno vissuto l’aborto con sofferenza. Qui sto dicendo che è sbagliato costruire un’unica narrazione possibile, che non è giusto parlare di aborto escludendo chi ci dice che ha abortito ed è stata bene, e continua a stare bene, che non l’ha vissuto come un trauma.
In Italia ci sono problemi strutturali legati all’aborto.
In primis c’è un alto numero di medici obiettori di coscienza: un report dell’associazione Luca Coscioni ha infatti dimostrato che ci sono ospedali con il 100% di obiettori di coscienza e quelli con una percentuale superiore all’80% per tutte le categorie professionali (ginecologi, anestesisti, personale non medico).
In particolare sono 11 le regioni in cui c’è almeno un ospedale con il 100% di obiettori: Abruzzo, Basilicata, Campania, Lombardia, Marche, Piemonte, Puglia, Sicilia, Toscana, Umbria, Veneto. Le Regioni più inadempienti sono la Sardegna e la Sicilia, con più dell’80% di mancata risposta all’accesso civico generalizzato. Ad Andria (Puglia) sono obiettori al 100% sia i ginecologi sia il personale non medico. Nel Polo ospedaliero di Francavilla Fontana (Puglia), più del 90% di medici ginecologi, gli anestesisti e gli infermieri sono obiettori.
In quest’articolo su L’Essenziale si racconta che all’ospedale civile dell’Annunziata di Cosenza, in Calabria, i ginecologi sono tutti obiettori di coscienza e l’interruzione di gravidanza è possibile solo due volte alla settimana quando è presente il medico “a gettone” che pratica l’ivg.
In moltissime città poi ci sono dei consultori chiusi e i pochi servizi disponibili si rivelano carenti.
Abortire a Napoli non solo significa incontrare poche strutture disponibili ad offrire l’ivg rispetto alla densità abitativa della zona - ci sono infatti dei consultori chiusi e mai più riaperti - ma si tratta di strutture con gran parte del personale obiettore di coscienza e carenti nei servizi offerti a causa, per esempio, della mancanza dell’ecografo, necessario se si vuole verificare lo stato dello gravidanza (uno step che serve per arrivare all’interruzione volontaria della stessa).
Ad agosto ho intervistato per Il Mattino alcune delle attiviste dell’associazione ‘Ccà nisciuna è fessa, la rete territoriale che si occupa di salute sessuale e riproduttiva e diritto all’aborto, che mi hanno raccontato di essere state contattate da diverse donne che hanno riscontrato difficoltà di accesso all’Interruzione Volontaria di Gravidanza (IVG).
Se il bacino d’utenza che richiede l’interruzione volontaria di gravidanza è maggiore rispetto alla disponibilità delle strutture che offrono il servizio già durante tutto l’anno, ad agosto la situazione si è complicata con il poco personale non obiettore di coscienza in vacanza.
«Questa problematica si fa tanto più evidente nel momento in cui tante persone si sono trovate con le porte in faccia chiuse, ma va oltre il mese di agosto: nel momento in cui in un ospedale c’è una bassissima percentuale di medici non obiettori di coscienza, e quei medici vanno in vacanza, il reparto rimane sprovvisto e conseguentemente non si può effettuare l’interruzione volontaria di gravidanza», hanno raccontato infatti due delle attiviste.
La verità è che la stessa legge 194/78 presenta dei limiti. Parliamone.
In primis è una legge che tutela la maternità, non garantisce il diritto all’aborto. È la stessa legge a chiamarsi infatti “Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza”. Ed è un dettaglio da sottolineare, perché significa che l’aborto è una concessione, è un qualcosa che può avvenire in determinati casi e a determinate condizioni.
Nella 194/78 non si parla di libera scelta, ma di casi in cui non vi è la possibilità di portare avanti la gravidanza ed è, quindi, possibile abortire. Anche questo è un dato importante, perché nell’articolo 4 si legge che entro 90 giorni dal concepimento può abortire «la donna che accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento».
Nell’articolo 2 si parla di consultori e c’è scritto che uno dei loro compiti è «far superare le cause che potrebbero indurre la donna all'interruzione della gravidanza».
Questo, tra le tante cose, consente che nei consultori ci siano membri di associazioni antiabortiste che di certo non sono un supporto, ma un ostacolo.
L’articolo numero 9 parla di obiezione di coscienza, che, come spiega quest’articolo su Il Post, riguarda esclusivamente la pratica, ma niente che sia tecnicamente precedente o successivo alla pratica stessa, come ad esempio la consegna del documento che attesti lo stato di gravidanza e la volontà della donna a interromperlo, documento che è necessario per l’aborto ma che non coincide con la pratica abortiva.
Nell’articolo ci sono indicazioni importanti perché c’è scritto che «gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenuti in ogni caso ad assicurare l'espletamento delle procedure previste dall'articolo 7 e l'effettuazione degli interventi di interruzione della gravidanza richiesti secondo le modalità previste dagli articoli 5, 7 e 8» e che «la regione ne controlla e garantisce l’attuazione anche attraverso la mobilità del personale».
Inoltre c’è scritto che l'obiezione di coscienza esonera il personale sanitario «dal compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l'interruzione della gravidanza e non dall’assistenza antecedente e conseguente all’intervento».
Dunque in questo caso basterebbe applicare la legge. A Il Post Chiara Lalli - saggista e filosofa italiana, autrice di diversi saggi di bioetica dedicati ai temi della riproduzione medicalmente assistita, dell'aborto e dell’eutanasia - dice che quando si parla delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l'interruzione della gravidanza bisognerebbe rileggere e interpretare correttamente la legge. «Chi è che può fare obiezione secondo la legge così per com’è scritta? Siamo sicuri che oltre ai ginecologi del chirurgico, anche gli altri siano autorizzati?», ha infatti dichiarato.
C’è ancora molto da fare, comunque. I Radicali stanno raccogliendo le firme per una proposta di legge che chiede un autonomo diritto di scelta e autodeterminazione, per far sì che la libertà riproduttiva non incontri più ostacoli morali e amministrativi e possa essere liberamente accessibile per chiunque decida di interrompere una gravidanza. E riguarda «le donne, le persone trans, non binarie e intersessuali, ossia tutte le persone, che accedono ogni giorno ai servizi in materia di salute riproduttiva».
Una cosa è certa: mai più così.
L' Italia non è un paese che ha reciso i ponti con la sua tradizione cattolica, che quindi non si è liberato dei sensi di colpa profondamente introiettati da una morale clericale, non è cioè un paese autenticamente laico.