Le femministe degli anni 70 l’avevano detto: dopo aver acquisito diritti fondamentali in ambito legale, lavorativo e riproduttivo — tuttavia messi a repentaglio negli ultimi mesi (negli USA la Roe v. Wade è stata ribaltata; in Italia la situazione non è delle migliori, considerando la chiusura dei consultori in varie città e il numero di medici obiettori di coscienza) — e aver creato uno squarcio nella struttura del potere, decentrandolo dall’asse fallocentrico, ci sarebbe stato un duro contraccolpo da fronteggiare: il mito della bellezza usato come arma politica contro il progresso delle donne.
Nel 1990 la giornalista Naomi Wolf ha analizzato questo fenomeno nell’omonimo libro Il mito della bellezza, definendolo “la versione moderna di un riflesso sociale in vigore dalla Rivoluzione Industriale”. Infatti, nel periodo storico in cui le donne avevano intrapreso, con successo, una lotta in risposta a chi le considerava intrinsecamente legate allo stereotipo della housewife dedita esclusivamente alla cura della casa e dei figli, il mito della bellezza si è imposto nel tentativo di bloccare o, quantomeno, rallentare gradualmente questo processo.
Nozioni di femminilità, ossessioni per il peso e terrore dell’invecchiamento sfociano in ciò che l’autrice chiama “pornografia della bellezza” e raccontano una storia ben precisa: la bellezza è una qualità che esiste oggettivamente e universalmente. Le donne, per dimostrare il proprio valore nella società, devono incarnarla.
Chiaramente non è affatto così. Il concetto di bellezza è soltanto l’affermazione di un sistema gerarchico che conferisce un valore alle donne in base ad uno standard fisico imposto culturalmente; è l’espressione dei nuovi rapporti di potere in una società in cui le donne devono competere per ottenere qualcosa che gli uomini hanno già.
Per di più, ritenere la bellezza una qualità oggettiva e immutabile significherebbe non considerare i processi evolutivi a cui è stata esposta nel tempo: i Māori ammiravano la fat vulva, i Padaung i seni cadenti, Botticelli i fianchi larghi e l’addome arrotondato. Oggi non è più così e ciò dovrebbe bastare a declassare quest’ipotesi.
Ma perché la società sente il bisogno di difendersi, rincorrendo questi ideali e allontanandosi, di fatto, dalle donne reali, da corpi, voci e volti autentici e tangibili, per ridurli a queste immagini prefissate e stereotipate del “bello”?
Un’ideologia volta a svalorizzare i progressi delle donne è stata “necessaria per contrastare il modo in cui il femminismo aveva iniziato a darci valore. L'economia contemporanea dipende in questo momento dalla rappresentazione delle donne all'interno del mito della bellezza”, scrive l’autrice. A partire dagli anni 80, nel momento in cui molte cose sono cambiate nell’industria economica, la bellezza ha smesso di essere “una forma simbolica di moneta” ed è diventata “letteralmente denaro”: la chirurgia estetica è diventata la specialità medica più diffusa, la pornografia il prodotto mediatico più consumato, e “33mila donne americane hanno detto ad alcuni ricercatori che vorrebbero perdere dieci chili più di qualsiasi altra cosa al mondo”.
Al lavoro cercano donne di “bella presenza” — come se questo fosse un requisito da soddisfare assolutamente per meritare quella specifica posizione — che è dipinta come una fantomatica forma di meritocrazia (“puoi ottenere il corpo che vuoi, se ti alleni!”; “se bella vuoi apparire, un po’ devi soffrire”, dicono in televisione) e come un segreto contro l’invecchiamento (“puoi rimodellare il tuo corpo quanto vuoi”; “fai sparire quelle rughe dal tuo viso con la nostra crema”, mai sentito prima?).
Le riviste femminili dispensano consigli di bellezza in manuali d’adattamento alla società (senza considerare che, così come rappresentano i suoi cambiamenti, potrebbero anche influenzarla), in uno scenario che sembra la distopia di quello precedente: come sottolinea Betty Friedan — attivista femminista statunitense — se, negli anni 50, una vera donna, una vera “eroina”, doveva “continuare ad avere figli”, oggi una “vera eroina” deve “continuare ad essere bella”.
La “pornografia della bellezza” per l’autrice ha quest’immagine: c’è la donna perfetta che giace prona con la bocca aperta e gli occhi chiusi; un secondo dopo, c’è lei inginocchiata sulla sabbia “a quattro zampe, con le natiche all'aria, la bocca aperta e gli occhi chiusi”. No, non è un porno. Si tratta delle pubblicità di un profumo e di un costume da bagno.
Insomma, non si può giustificare in alcun modo la nascita del mito della bellezza: è soltanto un girotondo attorno ad una gerarchia di potere imposta dal sistema.
A più di trent’anni dalla sua prima pubblicazione (e lunghi periodi in cui trovare una sua edizione cartacea era praticamente un’impresa titanica), il libro di Naomi Wolf è stato ripubblicato da Tlon, con una prefazione scritta da Maura Gancitano e Jennifer Guerra.
La storia ha fatto il suo corso, ma Il mito della bellezza è un classico della letteratura femminista e propone spunti di riflessione necessari anche per analizzare la società contemporanea. Bisogna, ad ogni modo, sempre contestualizzarlo e, soprattutto, recuperare le analisi successive, che hanno ampliato - e anche corretto - il discorso in molteplici punti.
“Le donne sono libere?”, si chiedeva Wolf nell’incipit della sua opera. È un quesito ancora aperto. E, fin quando ce lo chiederemo, avremo sempre bisogno di scardinare, tra le tante cose, il mito della bellezza.
Interessante disamina delle cause, e dei deleteri effetti, della ricerca della bellezza al femminile, che non avevo mai colto.
D'altronde non si può pretendere di sapere tutto.
Una cosa sola aggiungo: la mancanza di bellezza, ovvero la bruttezza, conta anche per gli uomini anche se in misura molto minore, dove la differenza con le donne sta nel considerarla socialmente ammissibile per gli uomini, seppure anche loro (noi) resta comunque un difetto.
E a pensarci bene non è una bella motivazione, per niente onorevole.
In ogni caso anche per gli uomini la ricerca della bellezza, come autoaffermazione e promozione, è ormai al pari delle donne, restano le disparità sugli effetti, che tralascio.
Personalmente cerco di valutare sempre e prima la persona, e se nella mia valutazione dovesse influire l'aspetto, almeno non faccio differenze di sesso.
Basterebbe sempre considerare che si ha davanti un altro me stesso, solo un po' diverso.
Ciao.
Aldo