Non abbiamo raggiunto il quorum
Proporre soluzioni semplici a problemi complessi ci fotterà alla lunga
Il referendum su cittadinanza e lavoro non ha raggiunto il quorum, e come spesso accade nel periodo storico in cui viviamo, la prima cosa che hanno fatto in molti è stata aprire Instagram e scrivere la solita lista di accuse in storie e caroselli: «Italiani ignoranti», «disinteressati», «se non votate poi non potete lamentarvi se perdete il lavoro».
Questa tendenza a ridurre un fenomeno complesso e stratificato a un problema di mera colpa individuale, ignorando le sue ragioni più profonde, è parte del fallimento politico a cui stiamo assistendo.
La retorica classista — che divide la popolazione tra chi “fa il proprio dovere” e chi è “colpevole” di non partecipare — non guarda in faccia la realtà: milioni di persone, soprattutto tra le classi lavoratrici, sono esasperate e sfiduciate.
Dietro al mancato quorum non può esserci solo una disattenzione civica, a meno che non vogliamo davvero credere che questo Paese sia un Paese fallito (in ogni angolo del mondo, poi, esistono persone che se ne fregano bellamente della politica e dei propri diritti, vi sfido a trovare una sola eccezione in questo senso), ma anche una sfiducia che si è ormai concretizzata nella fascia della popolazione che da tempo ha smesso di credere che la politica possa davvero rappresentare i suoi diritti, e soprattutto tutelarli.
Si tratta di milioni le persone, spesso appartenenti alle classi più povere, che si trovano in condizioni di precarietà e instabilità – condizioni che non trovano riscontro nel dibattito pubblico.
Persone che letteralmente vivono con le pezze al culo e si vedono rappresentate come svogliate che non hanno voglia di lavorare. Questo mentre ogni tentativo di garantire un salario minimo dignitoso, anche solo di nove euro l’ora, è stato affossato, e in molti casi l’unica offerta lavorativa che ricevono è un lavoro sottopagato, magari in nero, a quattro euro l’ora — con l’aggiunta del ricatto implicito di doversi anche sentire “fortunati”.
Anch’io sono incazzata e anch’io credo che molte persone siano disinteressate rispetto ai propri diritti: ma non tutte.
Gran parte della classe lavoratrice più povera in Italia ha visto decenni di promesse disattese, di politiche sociali che si sono ridotte a slogan senza sostanza. E questo, non solo (dico non solo perché un’altra spiegazione è che il quorum è troppo altro, tant’è che dal 1997 a oggi è stato raggiunto una sola volta: nel 2011), potrebbe spiegare il fallimento di questo referendum.
Non si tratta solo di mancanza di educazione civica o di volontà individuale, ma di un fenomeno che va interpretato nel contesto di una società che ha perso la propria capacità di inclusione e rappresentanza delle minoranze.
Questa, sinceramente, è una responsabilità anche di gran parte della sinistra e del centrosinistra, che con la classe lavoratrice non sa più come dialogarci. Infatti, la risposta di vari esponenti del Pd a questo referendum è stata festeggiare perché hanno votato comunque dodici milioni di persone. Un numero “importante”, insomma. Senza analizzare a fondo la questione.
Ma, dico io, una sana autocritica ogni tanto? Lo vogliamo capire che così non concludiamo proprio niente?
Al Sud, poi, la situazione è ancora più complessa. Non è che chi vive lì voglia essere povero, ma è chiaro che l’assenza dello Stato in molte zone e la scarsità di risposte istituzionali hanno costretto interi quartieri a imparare l’arte di arrangiarsi.
E l’arrangiarsi quotidiano diventa una forma di sopravvivenza: l’unica che sembra possibile, forse, ma anche una risposta alla mancanza di diritti che spesso si traduce in distacco dalla partecipazione politica.
Qui, poi, c’è una chiara responsabilità anche dei partiti al governo.
Quando la premier Giorgia Meloni si presenta al seggio senza votare, e quando la Lega di Matteo Salvini scrive sui social che proprio il giorno del referendum “è un’ottima giornata per andare al mare”, che cosa stanno facendo, se non dire alle persone che questo referendum è inutile?
Se vogliamo davvero comprendere le ragioni di questo fallimento e superare la crisi della partecipazione, però, non basta incolpare Meloni: c’è bisogno di mettere da parte le semplificazioni e provare a leggere con attenzione le cause strutturali di questa distanza.
La politica – la sinistra, in particolare - ha bisogno di dimostrare che la democrazia è una pratica quotidiana che richiede attenzione continuativa.
L’economista Michele Salvati, in un libro che si chiama Sinistra o cara, nel 1995 ha scritto una cosa che non si è smossa di una virgola rispetto ad allora. E dovrebbe, forse, farci riflettere:
È la consapevolezza acuta che noi, scienziati sociali, non abbiamo trattato tutte le conseguenze dai mille indizi di disagio sociale che pur vedevamo, che abbiamo sovrastimato la continuità e la vischiosità dei consensi ai vecchi partiti, che non abbiamo studiato a fondo i numerosi casi storici in cui le continuità si spezzano, le vischiosità si sciolgono e i giganti mostrano di aver piedi di argilla.