Parthenope è un ritratto, non una persona
Parthenope, protagonista del nuovo film di Paolo Sorrentino, gestisce la sua bellezza o la subisce?
Nel paesaggio onirico di Parthenope, ultimo film firmato Paolo Sorrentino, la bellezza non è solo pelle: è tutto ciò che c’è.
Il regista de La grande bellezza torna su terreni noti — la nostalgia, la perdita, il desiderio — con il suo stile visivo elegante. Ma questa volta la sua musa è una giovane donna. E la cinepresa la adora, ma sembra non ascoltarla per davvero.
Parthenope non è un personaggio in senso tradizionale. È un simbolo: della giovinezza, del fascino, dell’effimero.
Professori, amici d’infanzia, sconosciuti al ristorante — tutti la contemplano. La desiderano — o meglio, desiderano il suo corpo. Sono tutti uomini ricchi, quasi tutti molto più grandi di lei, che vogliono possederla come un gioiello prezioso da indossare in un’occasione importante e poi abbandonare in un cassetto.
Anche i dialoghi del film assecondano questa linea: “Sei consapevole dell’arrivo dirompente della tua bellezza?”, le chiede un uomo con cui cena in un ristorante di lusso. “Comincio a sospettarlo”, risponde lei.
Per tutto il film, Parthenope attraversa le scene più come spettro che come presenza. È osservata più di quanto osservi. Si muove nella vita degli uomini come un mito, ma non sembra sempre consapevole del suo fascino.
La domanda che mi sono posta per tutto il tempo è: Parthenope gestisce la sua bellezza o la subisce?
È una donna che parla per frammenti, spesso filosofici, spesso vaghi. Durante una conversazione con un uomo conosciuto in vacanza, afferma: “Lei non trova che il desiderio sia un mistero e il sesso il suo funerale?” — una battuta che potrebbe sintetizzare le ambizioni estetiche del film stesso: lussureggianti, ipnotiche, ma elusive.
Parthenope celebra la sua protagonista o la riduce a un’astrazione? È un ritratto di una giovane donna, o solo dell’idea che ne ha il suo autore?
È difficile ignorare la lente di genere attraverso cui questa storia viene raccontata. La cinepresa di Sorrentino — efebica e adorante — resta ancorata a uno sguardo inequivocabilmente maschile.
Rivedo in Parthenope alcuni degli scritti di Simone de Beauvoir su Brigitte Bardot.
Nell’opera Quando tutte le donne del mondo, de Beauvoir parla di Bardot come di una donna consapevole del proprio fascino, che riesce ad affermare la sua innata sensualità in un modo che è parte di un progetto più grande di affermazione di sé.
Bardot, per de Beauvoir, non è solo un corpo in vetrina, ma una figura che gioca con la propria estetica come una risorsa di potere personale:
La verità è dalla sua. Brigitte Bardot non finge mai. Non transige mai con ciò che le sembra evidente. La sua autenticità è talmente contagiosa da conquistare il suo amante. […] Una donna libera è il contrario di una donna leggera.
Nel caso di Parthenope, la protagonista non sembra avere lo stesso tipo di controllo. Piuttosto, sembra che siano gli eventi a cui partecipa a definirla.
C’è un momento emblematico in cui viene avvicinata da un’agente cinematografica che le propone di diventare una star. In quell’istante, è il suo aspetto a essere notato. Anche in ambito accademico, durante un esame viene accolta dall’assistente del professore con un commento sul suo corpo: “Quanto è bona!”. Lo stesso assistente reagisce con una risata nel momento in cui risponde ad una domanda che le pone il professore. Alla fine, lei prende trenta e lode. Eppure, anche allora, liquida tutto con una battuta che vorrebbe essere filosofica, ma non riesce nel suo intento: “Io non so niente, ma mi piace tutto”.
Tutte le battute del film in realtà hanno una verve filosofa che disturba un pochino. Vorrebbero tramettere grandi messaggi, ma non ci riescono e finiscono per essere una sola cosa: banali.
Comunque, questa dualità — la bellezza come potere e insieme come prigione — è qualcosa che il film accarezza, ma non approfondisce. Preferisce rifugiarsi in un’estetica sospesa.
La consapevolezza che Parthenope ha della propria bellezza sembra più una reazione agli sguardi degli altri che un atto consapevole di autoaffermazione. È una creatura mitologica, un simbolo di fascino e seduzione in costante costruzione. Il problema è che a sono gli altri a costruire la sua immagine, non è lei a farlo.
Man mano che la trama avanza, c’è un solo un momento in cui l’interiorità della protagonista è rappresentata in modo quasi autentico: una danza notturna sulle note di Era già tutto previsto di Riccardo Cocciante.
Questa scena lascia intuire la ricerca di una libertà interiore a cui, purtroppo, non si arriva mai. Ancora una volta, la complessità è evocata, ma non mostrata.
Secondo me è sbagliato contrapporre i due lati di gestire / subire, Sorrentino è un visionario e racconta una donna libera, che vive le contraddizioni con una sorta di ingenuità. Certo, il suo sguardo è maschile, ma la osserva senza giudizio e sempre con commozione. Io l’ho trovato onesto e coinvolgente, a suo modo.
Sono totalmente in accordo con l’analisi …ho provato a guardare il film, e non sono riuscita a finire di guardarlo. Non avrei saputo descrivere così bene il motivo per cui non sono nemmeno riuscita a vederlo, ma la sensazione era proprio di essere di fronte al solito occhio maschile in adorazione di un corpo. La povera ragazza non esisteva se non attraverso gli occhi maschili che la guardavano. Mi sono chiesta se potesse essere questo il messaggio, ma francamente mi sono solo stufata. Lasciamo a Sorrentino i suoi fantasmi e noi togliamoci da quello sguardo….guardiamo altro! Grazie per l’articolo!