Tony Effe non è mai stato censurato
Vorremmo essere censurate nel giornalismo come Tony Effe è censurato nella musica
Quando il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, ha detto in un’intervista a Il Messaggero che l’Amministrazione comunale della città ha preferito escludere il rapper Tony Effe dal Concerto di Capodanno al Circo Massimo a causa della misoginia che utilizza nei testi delle sue canzoni, in molti si sono detti contrari a questa scelta, definendola un atto di «censura».
Il primo è stato il cantante Mahmood, seguito da artisti come Vasco, Emma, Noemi. Anche la giornalista femminista Giulia Blasi si è detta contraria in un articolo su FanPage.
Ma possiamo davvero parlare di censura in questo caso? E che cosa significa libertà artistica?
C’è una parola che sfugge alle persone che commentano questa vicenda: rappresentazione.
Non è stato Tony Effe ad aver creato il patriarcato con i testi delle sue canzoni in cui utilizza slur misogini. Ma quei testi propongono una rappresentazione delle donne e del corpo femminile che è misogina: donne oggetto, donne a cui mettere il guinzaglio, donne da «fottere», donne «ordinate da casa come su Deliveroo».
Non si tratta di pura espressione artistica, dal momento che l’artista stesso ha scritto su Instagram: «Sono sempre me stesso. Scrivo quello che vedo e vivo quello che scrivo».
Un pensiero espresso in modo molto chiaro: nelle canzoni che scrive racconta la sua realtà, rappresenta i fatti della sua realtà secondo la propria visione del mondo.
E non è né sbagliato né da «moraliste», come invece scrive Giulia Blasi nel suo articolo, far notare che il nostro contemporaneo è fatto di rappresentazioni: il modo in cui guardiamo alle cose, descriviamo le cose, ha un impatto sulla realtà.
La narrazione, scrive la filosofa Adriana Cavarero nel libro Tu che mi guardi, tu che mi racconti, è «un’arte delicata». Il perché lo spiega la filosofa Hannah Arendt nel saggio Isak Dinesen: «La narrazione rivela il significato senza commettere l’errore di definirlo».
Chiunque narri una storia, in qualunque forma, intrattiene. E intrattenere significa rivelarsi agli altri in un «teatro interattivo» (Cavarero) dove ciascuno è, al tempo stesso, attore e spettatore: non può esistere una narrazione senza uno spettatore, l’atto stesso di rappresentare significa fornire una narrazione — non casuale — ad uno spettatore.
Non possiamo impedire a Tony Effe di proporre le sue rappresentazioni del mondo, non possiamo impedirlo a nessuno, ma possiamo scegliere — e crediamo sia giunto il momento storico in cui farlo — quale visione del mondo proporre a degli eventi pubblici, in cui partecipa un pubblico molto vasto e che sono finanziati con i soldi pubblici.
Possiamo anche interrogarci sul perché ci siano sempre le solite costanti nella rappresentazione delle donne nel panorama musicale/letterario/dei media mainstream: la donna oggetto, le amiche/nemiche, la strega, la prostituta, la vittima che sotto sotto se l’è cercata.
Censurare qualcuno significa zittirlo, impedirgli di parlare in modo sistemico, chiudergli tutte le porte e gli spazi (istituzionali e non), dall’alto verso il basso.
La censura, come spiega lo storico Sandro Landi nel libro Stampa, censura e opinione pubblica in età moderna, è intesa come «espressione dell’irriducibile alterità del potere rispetto alla società civile».
Nel caso di Tony Effe, non c’è alcun gioco di potere tra le istituzioni e il rapper. Un cantante che parteciperà a Sanremo, il più noto festival della musica trasmesso nella televisione pubblica italiana, può dirsi oggetto di censura?
Basterebbe soltanto questo per rispondere: no, sembra assai improbabile che si tratti di censura. Verso di lui che, tra l’altro, si esibirà comunque a Roma il 31 in un concerto al Palazzetto dello Sport annunciato poche ore fa.
Tony Effe è lo stesso cantante che ha a disposizione centinaia di spazi in cui parlare, milioni di visualizzazioni su YouTube, canzoni disponibili ovunque: Spotify, radio, televisione, avranno passato “Sesso e samba” persino nel bar sotto casa vostra.
È uno strano concetto di censura, questo. Vorremmo essere censurate nel giornalismo come Tony Effe è censurato nella musica.
Il problema non nasce e muore con Tony Effe, ma va cercato alla radice, nella cultura che ispira Tony Effe a scrivere canzoni di un certo tipo; e quindi, negare il palco a Tony Effe è un gesto simbolico del tutto privo di valore se rimane fine a se stesso e non è non accompagnato da tutta una serie di riflessioni, iniziative e operazioni culturali fuori dal palco e dalle feste comandate.
Non è stata questa la sensibilità in gioco. Perché la verità è che il numero di persone che si preoccupa leggendo strofe come
Mi dici che sono un tipo violento (okay)
Però vieni solo quando ti meno (è vero)
Non gridare, nessuno ti sente (shh)
Entro dentro, sono prepotente (pow)
oppure
Prendi la tua troia
Le serve una museruola (Woof, woof)
ma anche (e già li sento che dicono “beh ma qui non c’è niente di male”)
È piccolina, ma ha un culo giga
È brava a letto e pure a FIFA
è ancora un numero molto risicato.
Da questo numero — e questa è una cosa importante — vanno categoricamente escluse le persone che si scandalizzano per una vaga «volgarità» imputandola però «ai giovani d’oggi», «alla televisione», «all’internet», «ai cellulari», «all’erosione dei valori» senza rendersi conto che l’origine della volgarità è un’impostazione culturale nazionale di oppressione e svilimento della donna in cui anche loro hanno i piedi ben piantati.
Di che virtù esattamente stiamo parlando, se eliminiamo le parolacce e i riferimenti al sesso ma manteniamo salda l’idea della famiglia tradizionale che fa capo all’autorità dell’uomo?
I democristiani opprimevano le donne anche rimanendo vergini.
Nel caso di Tony Effe, poi, non si può proprio parlare di «nuove generazioni». Più o meno nuove saranno anche le generazioni che lo ascoltano, ma Tony Effe è nato nel 1991.
L’uomo che scrive certe canzoni è un adulto ultratrentenne.
Il dibattito si sta concentrando sulla libera espressione artistica dei suoi testi. Se di arte si tratta, dicono alcuni, allora è per forza esente da qualsiasi giudizio di natura morale.
Che la musica, in quanto arte, possa e debba esprimersi liberamente secondo la sensibilità dell’artista, e che sia sbagliato inibire questa sensibilità, è un fatto indiscutibile.
Non solo non si può impedire tout court a Tony Effe di scrivere quanto scrive. Ma anche, e soprattutto, non ha senso farlo in assenza di una presa di coscienza culturale sulla mentalità onnipresente che fa sì che si produca arte come quella di Tony Effe, e sulla responsabilità che tutte le persone hanno nell’eradicare questa mentalità.
Ed è proprio in virtù di questa responsabilità che, se da un lato è giusto e onesto riconoscere all’arte il suo campo di libera espressione, dall’altro non possiamo neanche liberarla dalla nostra esigenza di esprimere un giudizio morale una volta che l’arte ci raggiunge.
Decidere di non proporre al pubblico il messaggio artistico di Tony Effe su un certo palco, o in una certa radio, o una certa piattaforma digitale non solo è del tutto legittimo: è una forma di responsabilità.
Nel caso specifico del concerto di Capodanno è difficile parlare di responsabilità — l’invito a Tony Effe è stato rescisso non per genuina presa di coscienza, ma per paura del contraccolpo mediatico (troppo tardi!).
In linea generale, però, è possibile, giusto e oseremmo dire anche doveroso negare il palco a un uomo che quando arriva inizia il party / volano schiaffi e reggiseni da ogni parte / con una sola botta faccio due gemelli / copro la mia puttana di gioielli / ma non sei la mia tipa, quindi niente anelli.
Stavamo per scomodare Platone e la sua arte come mimesi, ovvero imitazione della realtà, poi ci ha pensato direttamente l’artista a offrire quella che è forse l’unica formulazione della sua œuvre con cui da scrittrici ci troviamo intimamente d’accordo.
«Scrivo quello che vedo» (dal post di Tony Effe su Instagram) — l’arte è rappresentazione della realtà, immagine di ciò che di essa già sappiamo e conosciamo ed esperiamo.
Se fosse solo questione di natura dell’arte, del suo esistere come conseguenza di qualcos’altro, allora sì, forse non varrebbe la pena perdere tempo a esprimere giudizi morali sulla sua libera espressione; basterebbe concentrarci su ciò che ne è causa. Ma non è così: l’arte non è solo mimesi e immagine.
«Vivo quello che scrivo» — ecco: l’arte influenza anche ciò che sulla realtà possiamo immaginare, ciò che in essa possiamo creare e in ultimo vivere. L’arte non è quindi solo conseguenza: è anche causa.
Quanti giri in motorino sui colli hanno fatto i bolognesi entrati nell’adolescenza a fine anni Novanta con Cesare Cremonini in sottofondo, e quanti non ne avrebbero fatti senza di lui?
L’esempio è banale, ma funziona.
Le canzoni di Tony Effe riflettono la misoginia di una realtà che diventa ancora più misogina grazie all’arte che la descrive.
Esentare l’arte da considerazioni morali serve solo a perpetuare questa circolarità.
Questo articolo è scritto in collaborazione con la giornalista e scrittrice Enrica Nicoli Aldini, che cura la newsletter Anche una donna qui.
Grazie davvero per questo articolo. Considerazioni che mi aiutano a risolvere almeno in parte il blocco emotivo che mi ha colpita alla lettura di quei testi e al dibattito seguito.
brava (brave in questo caso), come sempre
ma non è facile esserlo sempre, quindi brava
('sta cosa della censura ai danni di quel signore è davvero ridicola)