Martina Carbonaro aveva 14 anni. E non è stata una sorpresa.
Ogni femminicidio ci coglie “impreparati”. Si invocano pene esemplari, ci si stringe in fiaccolate. E poi tutto riparte come prima.
Martina Carbonaro aveva quattordici anni. È stata uccisa a colpi di pietra in un campo sportivo abbandonato, ad Afragola, il paesino in cui vivo in provincia di Napoli. A confessare il femminicidio è stato un ragazzo di diciotto anni con cui aveva avuto una relazione: Alessio Tucci.
Da giorni, la domanda che mi sento rivolgere è sempre la stessa: “Come hai reagito, sapendo che è successo qui, così vicino a te?”
La risposta, per molti, può sembrare cinica. Ma è semplicemente onesta: non è stato uno shock per me apprendere che violenze del genere possano avvenire nel contesto in cui vivo.
Non perché non provi dolore per una ragazza uccisa a quattordici anni. Ma perché questo non è un evento imprevedibile. È il risultato di un sistema che, sulla violenza di genere, continua a fallire.
Ogni femminicidio ci coglie “impreparati”. Si invocano pene esemplari, ci si stringe in fiaccolate, si chiede “come sia potuto accadere”. E poi tutto riparte come prima.
Ma finché continueremo a reagire solo dopo, continueremo ad archiviare vittime e a ignorare il contesto che le ha rese tali.
Martina è morta a quattordici anni per aver provato, pare, a chiudere una relazione. Ed è qui che dovremmo fermarci: in che tipo di società un ragazzo adolescente arriva a uccidere per non essere lasciato?
Non è una devianza. Non è un’anomalia. Non si tratta di un mostro che in un raptus impazzisce e compie un gesto estremo. È il riflesso brutale di una cultura del possesso diffusa nel contesto sociale in cui viviamo, nutrita da modelli tossici, da silenzi istituzionali, da stereotipi che continuano a circolare indisturbati tra i banchi di scuola, nelle chat private, nei gruppi WhatsApp.
Non basta punire, se non si previene. E, in Italia, la prevenzione è quasi del tutto assente. Sembra essere un compito assegnato a chi fa divulgazione su queste tematiche, ma dovrebbe partire dallo Stato stesso.
Non c’è una vera educazione sessuale e affettiva nelle scuole. Non ci sono percorsi strutturati per fornire a ragazze e ragazzi gli strumenti per riconoscere e smontare la cultura del possesso, la manipolazione, la gelosia presentata come amore, il controllo spacciato per protezione.
Una recente indagine condotta da Ipsos e ActionAid su un campione di 800 adolescenti tra i 14 e i 18 anni ha mostrato che un terzo considera la gelosia un segno positivo nella coppia; quasi uno su cinque ritiene accettabile uno schiaffo in una relazione; il 43% crede che, in tema di consenso, la responsabilità spetti a chi subisce; più della metà ha vissuto almeno una forma di controllo o violenza emotiva.
Questi dati non sono solo un’emergenza educativa: sono una sconfitta culturale.
Eppure, ogni volta che si propone un’educazione sessuale nelle scuole, si alzano barricate ideologiche, come se parlare di rispetto fosse un attacco ai “valori tradizionali”.
Martina non ha trovato pace nemmeno dopo la morte. È bastato che si sapesse della sua età per attivare il solito meccanismo perverso di colpevolizzazione della vittima: perché stava con un ragazzo più grande, perché era fuori casa, perché, forse, la madre non l’ha “controllata” abbastanza.
Il punto di vista dominante, ancora una volta, si sposta: non si chiede “perché lui?”, ma “perché lei?”
La colpa per l’opinione pubblica è delle scelte di una ragazza di quattordici anni — non della violenza di un diciottenne.
È più facile cercare errori nelle vittime che riconoscere l’enormità di un problema culturale che ci riguarda tutti.
Ogni volta che un femminicidio avviene al Sud, riemerge una vecchia e velenosa narrazione: quella che cerca nella “cultura locale” la spiegazione della violenza. Anche oggi, dopo il caso Carbonaro, non mancano i commenti che evocano, in modo più o meno esplicito, l’idea di una Campania arretrata, ancora abitata da “spose bambine”, da famiglie permissive, da quartieri in cui tutto è più “fuori controllo”.
Il sottotesto è chiaro: è successo ad Afragola, e quindi non sorprende.
Questo modo di leggere i fatti è non solo offensivo — verso le comunità del Sud, verso le famiglie coinvolte, verso la vittima stessa — ma soprattutto profondamente miope.
La violenza di genere non è un fenomeno meridionale. È una struttura trasversale, che attraversa il paese da Nord a Sud, dalle città universitarie ai paesi agricoli.
Attribuire il femminicidio a una “devianza territoriale” serve solo a distogliere lo sguardo dalla realtà scomoda: non esistono zone franche dal patriarcato. Esistono solo contesti in cui si è più o meno disposti a riconoscerlo. Lo stesso accade con l’etnia o la religione del femminicida, quando non è italiano. Razzismo e antimeridionalismo diventano alibi comodi — e modi per sfogare i vostri pregiudizi in modo indisturbato — per non affrontare la radice comune: la svalutazione sistematica delle donne, del loro corpo, della loro volontà.
Secondo i dati ufficiali del Ministero dell’Interno, nei primi tre mesi del 2025 sono state uccise 17 donne, 14 delle quali in ambito familiare o affettivo.
Secondo i monitoraggi indipendenti di Non Una Di Meno, ad oggi i femminicidi sono almeno 27. E si contano, ogni anno, centinaia di episodi di violenza domestica e relazionale che non finiscono sui giornali solo perché non producono un cadavere.
La verità è che non stiamo facendo abbastanza.
Sappiamo quali sono i segnali. Sappiamo dove intervenire. Sappiamo quali strumenti possono fare la differenza.
Ma non li usiamo.
E allora no, non sono sorpresa. Sono stanca.
In foto la fiaccolata ad Afragola per Martina Carbonaro. Fonte: Ansa.
Mi fate quasi tenerezza. Sono decenni che si parla, ma si fallisce sempre. Il motivo è semplice. Siete inadeguati. Non sapete trasmettere un messaggio che sia uno. Siete scarsi nello spiegare. Non siete bravi. Ed è incredibile come non si fa mai autocritica.
Chi parla di questi argomenti usa un linguaggio sciatto. Noioso. Fateci caso.
Detto ciò, per favore un po' di autocritica anche riguardo alla zona. Perché non succede a Trieste o a Milano?