Dietro le quinte del mestiere di scrivere
Io e Enrica Nicoli Aldini vi raccontiamo cosa significa lavorare con la scrittura
Buongiorno,
in quest'articolo io ed Enrica Nicoli Aldini, autrice della newsletter Anche una donna qui, abbiamo deciso di condividere le nostre esperienze nell’ambito della scrittura — focalizzandoci in particolare sulla sostenibilità economica dello scrivere — perché nel nostro mestiere raramente si parla delle difficoltà.
Si mostrano solo i successi, le pubblicazioni, i traguardi — ma nessuno racconta cosa succede davvero dietro le quinte.
Per noi è un atto politico: rompere questo silenzio significa far emergere la realtà di chi scrive e fa giornalismo indipendente.
L’esperienza di Anna
Quando ho pubblicato per la prima volta un articolo d'opinione nella mia newsletter, con nome e cognome in bella vista, ho passato ore a rileggerlo. Penso di aver corretto almeno cinque volte ogni frase, ogni passaggio, ogni riferimento letterario.
Non era neanche un pezzo particolarmente controverso: parlavo del mito della bellezza - ovvero di tutti quegli stereotipi esistenti sul corpo delle donne, di quegli ideali patriarcali che ci impongono per esempio di dover perdere un tot di chili per poter affrontare al meglio la prova costume (altrimenti come osiamo mostrarci al mare con la pancetta?) - collegandomi al libro Il mito della bellezza di Naomi Wolf.
In quell’articolo, esprimevo le mie idee. E sapevo che le avrei rese accessibili in uno spazio online, consultabile potenzialmente da chiunque, per sempre.
Ma se c’è una cosa che ho capito in questi anni è che il giornalismo d’opinione è fatto anche di questo: metterci la faccia, esporsi, e incassare – spesso – attacchi e offese gratuite. Bisogna farci il callo, perché altrimenti si inizia a sclerare nel giro di due post e mezzo (esaurimento incluso, ça va sans dire).
Quando ho iniziato a fare questo mestiere, pensavo che avrei vissuto di reportage.
Mi immaginavo con un taccuino in mano, inviata in luoghi dove accadono le cose che contano. In parte, infatti, è andata così: ho raccontato storie di cronaca napoletana facendo trasferte e parlando con la gente.
Ogni partenza, però, richiedeva un investimento personale: tempo, mezzi, energia. E i compensi che arrivavano – se arrivavano – non coprivano neanche il viaggio in treno.
Ho 26 anni. Ho iniziato a fare giornalismo tra i banchi di scuola, a 17. Sul giornalino scolastico scrivevo già di violenze sessuali, discriminazioni di genere, di questioni che non sapevo ancora chiamare “sistemiche” ma che lo erano eccome.
Ricordo in particolare un articolo sulla vicenda del gruppo La Manada: una violenza sessuale di gruppo avvenuta durante i festeggiamenti di San Firmino, a Pamplona (Spagna). Cinque uomini aggredirono una ragazza diciottenne.
La sentenza, che inizialmente non riconobbe il reato di stupro, accese un’ondata di proteste in tutta la Spagna.
Quel caso mi fece capire, ancora giovanissima, che scrivere significava non solo raccontare ma prendere posizione. Che il giornalismo senza posizioni non esiste: è un’illusione.
All’epoca ero sicura che avrei fatto la giornalista. Oggi non riesco ancora a immaginarmi in un altro modo. Alla faccia del “sogno adolescenziale” (argomentazione con cui un po’ tutti gli adulti attorno a me sminuivano le mie ambizioni).
Anche se attualmente tutti mi dicono che sono pazza, che dovrei cercare un “posto fisso”, un contratto stabile, percorrere una strada più sicura e prevedibile, io voglio continuare a scrivere per i giornali e per la mia newsletter. Da voce libera e indipendente.
Mi sono occupata per anni e anni di cronaca di Napoli e dell’area Nord. Mi piaceva, e quando mi va continuo a farlo. Ma oggi lo faccio con uno sguardo diverso: uno sguardo intersezionale, che prova a leggere anche le strutture più invisibili del potere, le disuguaglianze che si intrecciano. Perché raccontare i fatti non basta, serve anche mostrare da dove vengono, chi colpiscono, chi lasciano fuori.
Quando ho deciso di aprire uno spazio mio, l’ho fatto con questa intenzione: raccontare il mondo attraverso il mio sguardo, senza compromessi.
Un’altra cosa che ho capito in questi anni – tra collaborazioni precarie e l’instabilità strutturale del mestiere – è che per fare giornalismo non servono solo passione, competenza e ostinazione: serve anche onestà.
Quindi, in modo molto onesto, voglio dire che non è vero che “se vuoi, puoi”. Perché se parti da una posizione di svantaggio sociale, economico o culturale, nessuno ti assicura che emergerai. Nessuno ti garantisce che riuscirai a farne un lavoro, o che troverai spazio. È una narrazione tossica, quella che dice che bastano la passione e l’impegno: serve anche un sistema che permetta a chi ha buone idee di poter emergere. E oggi quel sistema non c’è.
Io, però, continuo a scrivere. E se un giorno non dovessi realizzarmi davvero come giornalista, continuerò a farlo nei ritagli di tempo libero, nelle ore rubate al lavoro che pagherà l’affitto.
L’esperienza di Enrica
Farò brutta figura? Penseranno che sono gretta? Insorgeranno? Revocheranno la propria iscrizione? Giudicheranno questa scelta incoerente, di cattivo gusto, da ancella del capitalismo?
Ho provato apprensione, la prima volta che ho messo un articolo della mia newsletter Anche una donna qui dietro a un paywall parziale: metà leggibile gratuitamente, l’altra metà accessibile a chi ha sottoscritto un abbonamento a pagamento. Gli abbonamenti sostengono la mia attività indipendente di scrittrice e giornalista, che di parole vive, grazie alle parole mangia, si veste, dorme sotto a un tetto.
Scrivere è il mio lavoro, insomma. Un lavoro che non consiste solo nel sedersi alla scrivania per produrre componimenti, ma prevede anche lunghe fasi di ricerca, riflessione, raccolta di spunti, interviste, punti di vista da integrare per offrire a chi legge valore unico e originale, intellettuale e materiale. Scrivere l’articolo di cui sopra ha comportato l’investimento fisico ed economico di un viaggio sul campo, durante il quale ho incontrato le protagoniste e i protagonisti della storia sugli Stati Uniti che ho raccontato – e che solo io ho raccontato.
Aggiungere un paywall parziale non è chiedere la luna, insomma. È come se il parrucchiere ti tagliasse i capelli a metà prezzo. Eppure ho avuto paura: come posso permettermi, io scrittrice sconosciuta, di sollecitare denaro per quello che io ho deciso dovesse essere il mio lavoro? Chi mi credo di essere?
Così ragiona, e viene costrettə a ragionare, chi dedica la propria vita al lavoro intellettuale.
Ho quasi 36 anni, mi sono formata all’università prima come traduttrice e linguista, poi come giornalista. Ho iniziato la mia carriera nella divisione News di una grande azienda tecnologica, dove ho lavorato per diversi anni prima che il mio team fosse messo in esubero. Mi sono accorta che mi piaceva scrivere – e che quello che scrivevo piaceva agli altri – che ancora il trancio di pizza a pranzo con i compagni delle scuole medie lo pagavamo in lire. Al liceo ho preso coscienza che il piacere di scrivere poteva anche essere il mio contributo migliore al destino dell’umanità, ovvero il mio lavoro. In un mondo ideale, in cui a ogni persona è allocato il mestiere che le permette di esprimere al meglio il suo potenziale, mi metterei in fila allo sportello della scrittura.
Non l’ho fatto veramente, tuttavia, fino a due anni fa, a 34 anni. Prima di allora, era sempre mancata attorno a me la struttura necessaria per realizzare la mia vocazione. La struttura psicologica, innanzitutto: non importa che ti piaccia scrivere o sappia farlo a livello professionale; è importante anche credere che ciò che hai da dire meriti lo spazio per essere scritto, e superare la ritrosia di crearlo. In secondo luogo, la struttura materiale: lavorare con la scrittura è spesso impossibile, se non si è già nelle condizioni di vivere senza scrittura.
Io ho scelto di lanciare la mia carriera in un Paese straniero, gli Stati Uniti. Non avevo bisogno solo di denaro per mantenermi, ma anche di visti lavorativi, raramente sponsorizzati da testate giornalistiche che a malapena garantiscono stipendi dignitosi. Il sogno di vivere di scrittura, negli Stati Uniti, da straniera, si è scontrato con la realtà: non era ancora il suo momento.
Ora che finalmente il momento è arrivato, mi chiedo se avrei potuto accoglierlo – se mentalmente avrei mai lasciato che arrivasse! – se non avessi lavorato per tanti anni in un’azienda che mi ha permesso di gettare solide basi economiche relativamente presto rispetto a tanti coetanei italiani, e di accumulare esperienza lavorativa grazie a cui trovo impieghi part-time1 che garantiscono entrate più sostanziose della mia attività di scrittura.
In altre parole: fino a che punto una persona come me, chiamata alla scrittura come massima espressione del suo potenziale lavorativo, può abbandonarsi al rischio di inseguire questa passione in assenza di stabilità economica?
Non si tratta solo di materializzare una forma di reddito qualsiasi: prima o poi, se insisti, qualche decina di euro per quello che scrivi ti arriva, ma non basta. Un’amica che ha scritto e pubblicato un libro, con una casa editrice piccola ma tutto sommato conosciuta nel panorama letterario italiano, mi ha parlato di poche centinaia di euro di proventi. Un mese di affitto, forse, se condividi una stanza con tre persone in un appartamento con sette coinquilini nella periferia di una piccola città senza università o industrie. Per aver scritto un libro intero.
Dopo la rielezione di Donald Trump, una nota rivista culturale mi ha commissionato un articolo. Ho lavorato a lungo alla stesura e a rifinire la scrittura2, ho integrato le voci esperte di quattro persone statunitensi con tutto il tempo che richiede trovarle, contattarle, condurre l’intervista. Pagamento lordo: 60 euro, che se fossi residente in Italia sarebbero diventati 51 al netto delle ritenute; per la sottoscritta equivale a un mese di bollette. Dopo otto mesi, non l’ho ancora percepito. Se ne avessi davvero avuto bisogno per tenere accesa la luce o farmi la doccia con l’acqua calda, molto probabilmente avrei già cambiato strada.
Quante brillanti voci italiane hanno cambiato strada prima che potessimo ascoltarle? A quanti talenti è regolarmente negato lo spazio di emergere perché non siamo in grado di restituire loro il valore che donano (letteralmente) alla società e al panorama culturale?
Non solo: esiste un’insidiosa corrente di pensiero, fomentata dai social media, che fa sentire i lavoratori della cultura in colpa se aspirano a una giusta retribuzione, poiché sarebbe una “contraddizione”. Scrivi brillanti invettive sulle ingiustizie del capitalismo? Sia mai che tu possa guadagnarci qualche soldino: saresti incoerente! È così che chi sceglie il lavoro intellettuale, quello che concerne la riflessione sull’umanità, la società e il progresso, si sente spesso anche in dovere di distribuirlo pro bono. Poi magari scrive nel buio completo di una catapecchia senza acqua corrente perché non ha il denaro per pagare le bollette – ma almeno ha mostrato “coerenza”! E chi legge ha mostrato di non aver capito nulla di quelle invettive. La vera incoerenza è pretendere che la produzione di lavoro intellettuale avvenga a titolo gratuito “per i valori di cui si fa portavoce” (e qui non mi riferisco ai consumatori, ma a chi possiede i mezzi di produzione e distribuzione della scrittura).
In questo senso, Substack ha rivoluzionato il panorama della scrittura indipendente proponendo un modello di business fondato sul sostegno alla persona, invece che a un’organizzazione o azienda o editore. Non è facile raggiungere quel livello, ma esistono scrittrici e scrittori che percepiscono un dignitosissimo reddito annuale grazie a Substack. Anche una piattaforma come questa, però, nel tendere alla democratizzazione della scrittura presenta certe contraddizioni.
Una scrittrice già affermata, che già trae regolare profitto dalle sue parole, può lanciare una newsletter con la certezza che un nutrito numero di lettrici e lettori vorranno sottoscrivere un abbonamento a pagamento, fidandosi a priori che ciò che riceveranno “merita” la spesa di una modica cifra mensile o annuale. Una scrittrice che ancora sta emergendo, invece, e che nella maggior parte dei casi ancora non guadagna da vivere grazie alla scrittura, è costretta a un lungo periodo di gavetta gratuita prima di poter sollecitare sostegno economico.
Tra le due, però, è la scrittrice emergente, non quella già affermata, che avrebbe bisogno di maggiore sostegno. Non è giusto lasciare che la scrittrice emergente tema il giudizio altrui per fare quello che la scrittrice affermata può fare senza rischiare perdita di fiducia o ritorsione alcuna.
Il dilemma dell’uovo e della gallina è la cifra del mestiere della scrittura: per guadagnare denaro scrivendo è necessario avere una serie di basi, che siano le fondamenta economiche per persistere in assenza di una giusta e costante retribuzione, o l’esperienza pregressa che garantisce la fiducia – e quindi il sostegno economico – di chi legge. Ma è difficile arrivare a questo punto senza poter già contare su stabilità e/o affermazione.
È frequente, per scrittrici e scrittori non ancora stabili nella professione, accettare di scrivere gratis, o in cambio di compensi ridicoli, per “fare curriculum” o “arricchire il portfolio”. Testate e case editrici lo sanno bene, e se ne approfittano. Peccato che l’arricchimento si limiti alla carta: il portfolio che alla cassa del supermercato funziona come bancomat, purtroppo, devono ancora inventarlo.
Al momento accompagno l’attività di scrittura con training di modelli di intelligenza artificiale in materia di giornalismo e revisione della localizzazione in italiano di software e prodotti tecnologici.
Il pezzo è poi stato pubblicato copincollato pari pari senza editing alcuno, lasciandomi di stucco: negli Stati Uniti anche un editoriale di David Remnick del New Yorker non arriva ai lettori senza essere passato per almeno un giro di editing approfondito, non solo delle parole in superficie, ma anche del contenuto in profondità. Ma la storia delle dubbie pratiche del giornalismo italiano la raccontiamo un’altra volta.
Ciao,
Vi sono molto grata per questo articolo. Sono molto più vecchia di voi, ho sempre amato e praticato la scrittura (da ricercatrice e storica non da giornalista, ma sono forse più i punti di contatto che le differenze), e nonostante a un certo punto abbia dovuto mollare la presa e prendere atto che non avrei potuto mantenermi soltanto come ricercatrice free lance, ho fatto lavoro disparati e diversi che però mi hanno consentito sempre di dare un contributo di passione e creatività originale. Mi considero privilegiata per questo, e grata, ma il prezzo da pagare in termini di povertà economica è stato pesante.
L'intro per dirvi che il clima, l'andazzo mi verrebbe da dire, sono assai stagionati, almeno in Italia, se io che ho fatto la maturità nel 1985 mi ci sono riconosciuta in pieno. Io, noi, avevamo ancora meno voce e meno strumenti, per esempio non sarebbe stato pensabile poter avviare una newsletter in proprio e metterla a pagamento - per quanto "rischioso"- semplicemente perché la rete non esisteva. Sono felice che perlomeno questa opportunità esista; in mezzo a tanti rischi, fate funzionare quello che di utile ci può dare. Vi sostengo con gioia, nei limiti delle mie ahimè povere finanze.Buon lavoro! Paola
Grazie per il bellissimo articolo. Io non scrivo, se non telegrafici comunicati stampa e note di sala, che per i miei concerti o per i concerti che organizzo. La famosa battuta “che cosa fai?” - “il musicista” - “ah, sì… ma intendo di lavoro?” non è lontana dalla realtà. L’artista deve essere superiore al vile denaro perché ha già “la fortuna di fare quello che gli piace”, come se il resto dell’universo vivesse in un girone infernale e fosse condannato a fare un lavoro che odia, con l’ulteriore umiliazione di essere pure retribuito. Come se fare quello che ti piace cadesse dal cielo… Ho 64 anni, insegno in Conservatorio e di quello vivo. Tutto il resto ho scelto di farlo al di fuori di un circuito retribuito. Almeno posso scegliere cosa fare, con chi e dove, e per chi vuole. Tanto non sono le paghe da fame che cambierebbero la mia situazione economica. E a me va benissimo così e mi sento privilegiato. Ma tutto ha un prezzo nella vita.